Responsabilità

La Responsabilità Sanitaria nel 2019: San Martino e le 10 nuove sentenze della Corte di Cassazione

di Gabriele Chiarini

Commento a cura di dell' avv. Gabriele Chiarini, Studio Legale Chiarini


Con 10 sentenze depositate – simbolicamente? – nella ricorrenza di San Martino (lo stesso giorno, undici anni fa, venivano depositate le motivazioni di Cass. SU, 11/11/2008, nn. 26972, 26973, 26974 e 26975), la Suprema Corte di Cassazione offre agli interpreti numerosi spunti di riflessione per una organica rielaborazione del quadro normativo in materia di responsabilità medico-sanitaria e risarcimento del danno, all'esito della ormai assimilata entrata in vigore della cd. legge “Gelli-Bianco” (l. n. 24/2017).
Si tratta delle importanti pronunce di Cass. III, 11/11/2019, dalla n. 28985 alla n. 28994, i cui tratti essenziali cercheremo approfondire, sinteticamente, in questo approfondimento.


1. I presupposti di risarcibilità del danno da violazione del “consenso informato” (Cass. III, 11/11/2019, n. 28985, Rel. Olivieri )
IL CASO
Una paziente aveva chiesto il risarcimento per aver sviluppato una patologia (mielopatia dorsale da radioterapia), quale conseguenza delle eccessive dosi di irradiazione della terapia radiante somministrata per trattare altra malattia di base (linfoma di Hodgking).
La Corte d'Appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato l'Istituto Oncologico al risarcimento dei danni, rilevando che non era stata fornita la prova liberatoria di cui all'art. 1218 c.c., ed anzi che sussisteva prova della colpa professionale dei Sanitari, per violazione del dovere di prudenza, che avrebbe imposto un dosaggio di irradiazione inferiore, in considerazione delle condizioni di salute della paziente. La Struttura Sanitaria ha proposto ricorso per Cassazione.


I PRINCIPI
Nel ribadire che il concetto medico di “complicanza” è privo di rilievo sul piano giuridico, la Corte ha rigettato il ricorso proposto dall'Istituto Oncologico.
Poiché nella vicenda si controverteva anche in tema di “consenso informato”, la Cassazione – pur ritenendo carente di interesse il pertinente motivo di impugnazione – ha colto l'occasione per rivisitare sistematicamente l'istituto, dettando una serie di principi utili a risolvere le principali situazioni che possono presentarsi all'interprete.
In particolare, va premesso che – come noto – la violazione del dovere informativo può causare:
· un danno alla salute, quando risulti (mediante giudizio controfattuale) che il paziente, se correttamente informato, avrebbe rifiutato l'intervento;
· un danno da lesione del “diritto all'autodeterminazione”, purché si tratti di un pregiudizio di apprezzabile gravità.
Occorre poi distinguere secondo che l'omessa e/o insufficiente informazione sia relativa a un trattamento sanitario che:
A) ha cagionato danno alla salute per una condotta colposa, ed allora, se risulta che il paziente, ove correttamente informato:
- i. avrebbe comunque acconsentito all'intervento, il risarcimento sarà limitato al danno alla salute;
- ii. non avrebbe acconsentito, il risarcimento comprenderà sia il danno alla salute sia il danno da lesione del “diritto all'autodeterminazione”;
B) ha cagionato danno alla salute per una per una condotta non colposa, se risulta che il paziente (correttamente informato) non avrebbe acconsentito all'intervento, il risarcimento comprenderà il danno da lesione del “diritto all'autodeterminazione” e l'eventuale danno alla salute “differenziale” (tra lo stato conseguente all'intervento e quello preesistente);
C) non ha cagionato danno alla salute, se risulta che il paziente (correttamente informato) avrebbe comunque acconsentito all'intervento, nessun risarcimento sarà dovuto;
D) non ha cagionato danno alla salute del paziente, ma gli ha impedito indagini diagnostiche più accurate e/o attendibili, allora sarà risarcibile il danno da lesione del “diritto all'autodeterminazione”, in termini di contrazione della libertà personale e di sofferenza soggettiva provata dal paziente.
Grava sul paziente l'onere di provare che, se fosse stato correttamente informato, avrebbe rifiutato il trattamento sanitario. La prova, ad ogni modo, può essere fornita con ogni mezzo, ivi compreso il fatto notorio, le massime di comune esperienza, nonché le presunzioni.

2. I criteri per la determinazione del danno differenziale da lesioni “concorrenti” (Cass. III, 11/11/2019, n. 28986, Rel. Rossetti)


IL CASO
Procedimento in materia di risarcimento del danno da incidente stradale: il danneggiato reclamava un danno (stimato ex se nella misura del 6,5% di I.P.), che aveva aggravato la sua condizione di invalidità conseguente ad altro e precedente sinistro (che gli aveva, a suo tempo, provocato una I.P. del 60%).
La Corte d'Appello di Milano, confermando la sentenza di primo grado, aveva liquidato il danno calcolando la differenza tra il valore monetario della I.P. complessivamente residuata (66,5%) e quello della I.P. preesistente (60%).
La Compagnia Assicuratrice ha proposto ricorso per Cassazione.


I PRINCIPI
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla Compagnia Assicuratrice, richiamando innanzi tutto la separazione concettuale tra:
·”causalità materiale” (relazione tra la condotta e l'evento lesivo, funzionale all'imputazione di responsabilità) e
·”causalità giuridica” (relazione tra l'evento lesivo e le conseguenze pregiudizievoli, funzionale alla determinazione della misura del risarcimento).
Cò premesso, la Cassazione – con estrema lucidità e chiarezza espositiva – distingue tra i casi di:
- “lesioni policrone coesistenti” (quando il danno riguarda una persona che ha già delle menomazioni, le quali però non interferiscono con i postumi concretamente prodotti dall'illecito):
◦contrariamente ad una (arcaica) opinione medico-legale, la I.P. non deve essere ridotta e quindi il danno va liquidato come se si trattasse di persona sana;
- “lesioni policrone concorrenti” (quando le menomazioni preesistenti del danneggiato si aggravano in conseguenza dell'illecito):
◦ si stima in punti percentuali la I.P. complessiva dell'individuo, e la si converte in valore monetario (a);
◦ si stima in punti percentuali la I.P. teoricamente preesistente all'illecito, e la si converte in valore monetario (b);
◦si sottrae l'importo (b) dall'importo (a) e si ottiene così l'entità del risarcimento, salvo naturalmente il prudente uso dell'equità “correttiva”.
Perciò, esemplificativamente, se una persona – già invalida al 60% – subisca un illecito che la faccia divenire invalida al 70%, avrà diritto al risarcimento del valore monetario di quel 10% che aggrava l'invalidità dal 60 al 70% (e non già dei primi 10 punti percentuali delle Tabelle in uso).
Del pari, un soggetto monocolo funzionale che abbia perso anche l'occhio sano dovrà vedersi risarcire la differenza tra il valore monetario della cecità bilaterale e quello della cecità monolaterale (e non già della mera perdita di un occhio).


3. La ripartizione dell'onere risarcitorio tra Struttura e Medico (Cass. III, 11/11/2019, n. 28987, Rel. Porreca)


IL CASO
Una paziente, scontenta degli esiti di alcuni interventi di mastectomia, aveva citato in giudizio un Chirurgo Plastico e la Clinica presso la quale questi l'aveva operata. Tribunale e Corte d'Appello avevano accolto la domanda e condannato in via solidale il Medico e la Struttura al risarcimento dei danni, affermando che non si potesse fare alcuna differenza – quanto alla graduazione delle colpe – tra chi aveva eseguito male l'intervento e chi avrebbe dovuto assicurare l'esecuzione da parte di un operatore idoneo.
La Clinica ha proposto ricorso per Cassazione.
I PRINCIPI
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla Clinica, richiamando il concetto di “rischio di impresa” della Struttura che – inevitabilmente – si avvalga della collaborazione, a qualunque titolo, di Operatori Sanitari per l'esercizio della propria attività (cuius commoda eius et incommoda).
Si è dunque affermato che la ripartizione interna dell'onere risarcitorio tra Struttura e Medico, anche in caso di accertata responsabilità colposa di quest'ultimo, va effettuata in pari quota, in applicazione del principio presuntivo di cui agli artt. 1298 e 2055 c.c., salva la prova (il cui onere grava sulla Struttura) dell'assorbente responsabilità del Medico, intesa come grave, straordinaria, soggettivamente imprevedibile ed oggettivamente improbabile malpractice.
Detto principio conserva validità tanto nel regime anteriore quanto in quello posteriore alla legge Gelli.


4. La “personalizzazione” del risarcimento (Cass. III, 11/11/2019, n. 28988, Rel. Positano)
IL CASO
La Corte d'Appello di Napoli, in riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato una Struttura Sanitaria e due Medici al risarcimento dei danni sofferti in occasione del parto (invero di modesta entità) da un minore e dalla madre, con contestuale accoglimento della domanda di manleva esperita verso la Compagnia Assicuratrice, la quale ha proposto ricorso per Cassazione.
I PRINCIPI
La Suprema Corte ha accolto il ricorso proposto dall'Assicurazione sul quantum liquidato, specificando che la “personalizzazione” (in aumento) del risarcimento spettante alla vittima di un illecito si giustifica soltanto se le conseguenze dannose sofferte siano straordinarie ed eccezionali, poiché quelle ordinarie sono già espresse dalla valutazione tabellare del grado percentuale di I.P. accertato.
Con riguardo al danno da perdita della capacità lavorativa, richiamata la distinzione tra capacità lavorativa generica (la cui lesione genera un danno non patrimoniale) e capacità lavorativa specifica (la cui lesione genera un danno patrimoniale), la Corte fornisce i seguenti criteri per un inquadramento dogmatico delle varie fattispecie che possono verificarsi:
·se la vittima conservi il reddito, ma lavori con maggior pena (cd. “cenestesi lavorativa”), si tratta di un danno non patrimoniale, da liquidare personalizzando in aumento la valutazione tabellare;
·se la vittima abbia perso – in tutto o in parte – il proprio reddito da lavoro, si tratta di un danno patrimoniale da lucro cessante, da liquidare in base alle regole di questa categoria concettuale;
·se la vittima non aveva un lavoro, e non potrà più averlo a causa del sinistro, anche in questo caso si tratta di danno patrimoniale da lucro cessante, con la precisazione che non può applicarsi il criterio del triplo della pensione – oggi assegno – sociale, poiché l'art 137 del Codice delle Assicurazioni (d.lg. n. 209/2005) è norma eccezionale (rectius: speciale) applicabile soltanto nell'ambito dell'azione diretta contro l'assicuratore.
5. I.C.A. e danno da morte (Cass. III, 11/11/2019, n. 28989, Rel. Dell'Utri)


IL CASO
La vicenda riguarda il decesso di un paziente per infezione ospedaliera (da stafilococco aureo), per cui la Corte d'Appello di Roma aveva liquidato il risarcimento del danno in favore dei figli e del coniuge.
L'Azienda Sanitaria ha proposto ricorso per Cassazione.


I PRINCIPI
La Suprema Corte ha rigettato i motivi di ricorso sull'an della responsabilità sanitaria, accogliendo invece quelli relativi al quantum del risarcimento.
Innanzi tutto, in materia di I.C.A. (infezioni correlate all'assistenza), una volta che sia stata dimostrata (dal paziente o dai suoi congiunti) la riconducibilità causale del contagio al fatto della Struttura Sanitaria, spetta a quest'ultima – se vuole andare esente da responsabilità – dare la prova (invero assai difficile, se non davvero “diabolica”) che il proprio inesatto adempimento è stato determinato da un impedimento imprevedibile ed inevitabile con l'ordinaria diligenza.
Con riferimento al profilo liquidatorio, la Corte – richiamando l'orientamento delle sentenze di San Martino 2008 – ribadisce che non può liquidarsi una somma ulteriore per “danno morale” (e tantomeno per “danno esistenziale”), in aggiunta al “danno da perdita del rapporto parentale”, poiché ciò costituirebbe indebita duplicazione risarcitoria.
Ancora, la pronuncia considera ammissibile il ricorso alla prova presuntiva in tutti i casi in cui il legame familiare debba considerarsi sufficientemente intenso da giustificare – fino a prova contraria – la sussistenza del danno da perdita del rapporto parentale, espressamente nominando le figure del coniuge, del convivente more uxorio, del figlio, del genitore, della sorella, del fratello, del nipote, dell'ascendente, dello zio e finanche del cugino, fatta naturalmente salva la libertà di dimostrare – purché rigorosamente – la sussistenza di un apprezzabile rapporto affettivo anche tra parenti più lontani o, addirittura, tra soggetti non legati da vincoli di sangue (ad es., figli e genitori “acquisiti”).
Per la concreta determinazione del quantum risarcibile, merita di essere sottolineato l'esplicito riferimento ai criteri – che invero sono da tempo alla base delle Tabelle di Roma – della convivenza, della sopravvivenza di altri congiunti, dell'età delle parti del rapporto familiare perduto, nonché di ogni altra evenienza o circostanza che il prudente apprezzamento del Giudice sappia cogliere.
Infine, esclusa la risarcibilità ex se del danno non patrimoniale da perdita istantanea della vita (cd. “danno tanatologico”), resta confermata – nel caso in cui tra lesione e morte si interponga un lasso di tempo apprezzabile, ancorché breve – la necessità di riconoscere il cd. “danno terminale”, nella duplice accezione di danno biologico temporaneo, stricto sensu inteso, nonché di danno morale da lucida agonia o formido mortis.


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