La sopravvenuta interdizione obbliga l'amministratore di sostegno a "chiedere" l'interruzione del processo
Nel caso è necessario applicare l'articolo 300 del Cpc, trattandosi di garantire l'effettività del contraddittorio
Nel caso in cui il soggetto sia interdetto e, quindi, non possa agire in contenzioso autonomamente, il giudizio va momentaneamente sospeso per essere successivamente portato avanti dall'amministratore di sostegno.
La sentenza
Atal proposito la Cassazione (ordinanza n. 32845/22) ha fatto una necessaria distinzione. Da una parte l'amministratore di sostegno può essere autorizzato a rappresentare il beneficiario per la stipula di contratti di un determinato importo. In questo caso il beneficiario mantiene la capacità di agire per la stipula di contratti di valore inferiore e, correlativamente, la rappresentanza processuale per i giudizi relativi a tali contratti. Se, invece, il decreto di nomina conferisce all'amministratore di sostegno poteri di rappresentanza molto ampi, una volta constatata la gravità delle limitazioni fisico psichiche di cui soffre il beneficiario, altrettanto ampia sarà la rappresentanza processuale conferitagli e il compito di vigilanza del giudice tutelare verrà a concentrarsi sia sul rapporto costi-benefici dell'azione giudiziaria da intraprendere sia sull'utilità dell'azione in funzione del perseguimento dell'interesse del beneficiario. Secondo la Cassazione nel caso in cui sopraggiunga l'impossibilità totale di provvedere ai propri interessi (interdizione o inabilitazione), può conseguire la perdita della capacità processuale in capo al soggetto beneficiario, con la necessaria applicazione dell'articolo 300 del Cpc, trattandosi di garantire l'effettività del contraddittorio, funzione assicurata proprio attraverso l'interruzione del processo. Ove si sia dinanzi ad «un'amministrazione di sostegno incapacitante», che priva del tutto la parte interessata della capacità processuale, può conseguire l'interruzione del processo». Si legge nella sentenza che nella vicenda concreta il dies a quo per la riassunzione, (anche in questa ipotesi, poiché la determinazione giudiziale consegue ad uno specifico accertamento di fatto), decorre sempre dal provvedimento del giudice che dichiara l'interruzione del giudizio.
Il principio di diritto. I Supremi giudici hanno enunciato il principio di diritto secondo cui «Il provvedimento di nomina dell'amministrazione di sostegno, per l'estrema flessibilità e duttilità che caratterizza l'istituto, inteso quale presidio mobile, non determina di per sé l'interruzione del giudizio di cui sia parte il beneficiario dell'amministrazione e, anche qualora il difensore dell'amministratore dichiari in udienza l'evento, non ne consegue come automatismo, l'interruzione del processo, come invece accade nelle diverse ipotesi della interdizione e della inabilitazione. Ne consegue che ove il giudice dichiari con ordinanza l'interruzione del giudizio, il dies a quo per la riassunzione del processo nel termine di tre mesi ex art. 305 c.p.c., decorre, per esigenze di tutela del beneficiario, non dalla data della dichiarazione in udienza dell'evento da parte del difensore, ma dal successivo provvedimento del giudice di merito che, dopo aver valutato, in base al tenore del provvedimento del giudice tutelare, l'effettiva capacità di agire residua dell'amministrato e la corrispondente capacità processuale ex art. 75 c.p.c., dichiara l'interruzione del processo».