Lavoro

La tassabilità del risarcimento da dequalificazione professionale

Nota a sentenza 2472 del 3 febbraio 2021

di Antonio Cazzella *


Con la recente sentenza n. 2472 del 3 febbraio 2021 la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla tassabilità del risarcimento da dequalificazione professionale, nell'ambito di una fattispecie in cui il datore di lavoro era stato condannato a corrispondere ad una lavoratrice il risarcimento del danno (importo commisurato al 50% delle retribuzioni per tutto il periodo dell'accertato demansionamento), che era stato assoggettato a tassazione in quanto considerato reddito da lavoro dipendente; la lavoratrice aveva agito per accertare l'adempimento parziale del dictum giudiziale ed il pagamento della somma corrispondente alle trattenute fiscali, che riteneva non applicabili al risarcimento del danno liquidato dal giudice.

Il Tribunale accoglieva la domanda, con sentenza confermata in grado di appello.

Il datore di lavoro ha impugnato la decisione innanzi alla Corte di Cassazione, deducendo, con il primo motivo di ricorso, che il danno liquidato dal giudice avesse natura retributiva ai sensi degli artt. 51 e 6, comma 2, del TUIR, secondo cui tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento danni consistenti della perdita di redditi, esclusi quelli da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi da lavoro dipendente; con il secondo motivo è stato rilevato che il danno da dequalificazione professionale era da ricondurre nell'alveo del "lucro cessante" - quindi, soggetto a tassazione - a differenza di quanto avviene per il "danno emergente".

La Suprema Corte ha rigettato il gravame.

In primo luogo, la Corte di Cassazione ha precisato che il dato intangibile dal quale prendere le mosse è costituito dalla circostanza che la somma liquidata è stata espressamente qualificata in sede giudiziale come "danno non patrimoniale alla professionalità".

A tal riguardo, la Suprema Corte ha ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto ammissibile tale tipologia di danno, precisando che, in tema di dequalificazione professionale, "è risarcibile il danno non patrimoniale ogni qual volta si verifichi una grave violazione dei diritti del lavoratore, che costituiscono oggetto di tutela costituzionale, da accertarsi in base alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e alla reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, all'inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del prestatore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o di svilirne i compiti".

La Suprema Corte ha, quindi, evidenziato che tale tipologia di pregiudizio rientra nella fattispecie del danno emergente e non del lucro cessante, che è invece "ravvisabile nelle ipotesi di perdita derivante dalla mancata percezione di redditi di cui siano maturati tutti i presupposti, per cui non è considerato reddito soggetto a tassazione"; per tale ragione, il risarcimento del danno da dequalificazione non deve essere sottoposto a tassazione, come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità riguardo il risarcimento del danno per perdita di chance (cfr. Cass. Sez. Trib. 29 dicembre 2011, n. 29579, che ha esaminato una fattispecie nella quale un lavoratore aveva ottenuto il risarcimento del danno da perdita di chance per essere stato privato della possibilità di sviluppo e di progressione nell'attività lavorativa a seguito dell'ingiusta esclusione da un concorso).

Sotto un profilo strettamente processuale, si segnala che la sentenza in esame ha richiamato un principio fondamentale in materia di ammissibilità del ricorso in Cassazione, in quanto, nel caso di specie, parte ricorrente non aveva impugnato l'altra ratio decidendi sulla quale era fondata la decisione della Corte di merito (ovvero, la riconducibilità del risarcimento all'ipotesi di danno da "perdita di chance", con esclusione degli importi corrisposti sia dalle ritenute fiscali sia dalla contribuzione previdenziale), con la conseguenza che l'impugnazione proposta sarebbe stata rigettata anche nel caso di accoglimento dei motivi di ricorso ritualmente formulati.

A tal riguardo, infatti, la Suprema Corte ha affermato che l'omissione in cui è incorsa parte ricorrente "connoterebbe anche di profili di inammissibilità le censure mosse con i motivi, perché sarebbe rilevabile una carenza di interesse, in quanto l'accoglimento delle suddette doglianze non potrebbe determinare in nessun caso la cassazione della gravata pronuncia".

*a cura dell'avv. Antonio Cazzella – Trifirò & Partners Avvocati

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