La telefonata dell’infermiera al marito non vìola la privacy
L’ospedale che contatta un familiare per urgenti finalità terapeutiche, peraltro senza rivelare cause nè contenuti del trattamento sanitario, non vìola la privacy della paziente.
Con una motivazione lapidaria nella sua sintesi, il tribunale di Ravenna ha annullato l’ordinanza-ingiunzione dell’Autorità Garante per la Protezione dei dati personali e ha quindi cancellato la maxi sanzione di 50 mila euro inflitta all’Azienda sanitaria locale.
Secondo il giudice monocratico civile, Alessia Vicini, la telefonata al marito di una donna reduce da un intervento di interruzione di gravidanza da parte di un’infermiera - preoccupata di avvertire la paziente dell’urgenza di assumere farmaci profilattici del tromboembolismo - non integra una violazione del Gdpr (Regolamento Ue 679/2016) e neppure della legge 194/78 sull’aborto.
Nell’infliggere la multa, invece, l’Authority aveva ritenuto che la condotta dell’infermiera aveva comportato «l’esplicita correlazione da parte di un soggetto terzo non legittimato tra l’interessata e un determinato reparto di degenza indicativo di uno specifico stato di salute (in violazione degli artt. 5 par. 1 lett. a) e 9 del Regolamento)».
Nel suo ricorso l’Ausl romagnola (assistita da Stefanelli&Stefanelli) ha sottolineato però che nessun dato sensibile e/o sanitario era stato rivelato al familiare, e che peraltro la telefonata rimediava all’allontanamento volontario della paziente prima di aver ricevuto le istruzioni sulle cure preventive da seguire. Peraltro nella comunicazione telefonica l’infermiera si era solo qualificata, invitando la paziente attraverso il marito a contattarla per una terapia.
Il giudice civile ha pertanto stabilito che «nessun dato di registrazione a servizi di assistenza o a una prestazione sanitaria; nessun codice che identificasse la paziente a fini sanitari; nessuna informazione risultante da esami o controlli né alcuna informazione su malattie, disabilità, rischi di malattie, stato fisiologico o biomedico riferiti alla paziente o trattamenti clinici cui la stessa si era sottoposta» era stato rivelato nella comunicazione, e che il reparto di ginecologia «non è necessariamente un reparto di degenza ed al suo interno non necessariamente ci si sottopone ad un intervento volontario di interruzione di gravidanza».
Infine, scrive il giudice Vicini, «non risulta violato neppure l’obbligo di riservatezza che la legge 194/78 impone con riguardo alla interruzione volontaria di gravidanza non essendo stata fornita al marito della paziente alcuna informazione che potesse ricondurre ad un intervento di interruzione volontaria di gravidanza, ignorata dal marito al momento della telefonata.»
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di Mauro Bove - Professore ordinario di diritto processuale civile presso l'Università di Perugia