Esami e Concorsi

Le problematiche giuridiche del furto in supermercato

Una sentenza della Cassazione è l'occasione per riscoprire una fattispecie molto frequente

di Nicola Graziano

PENALE/ FURTO IN SUPERMERCATO

 

TITOLO

Sulle problematiche giuridiche del furto in supermercato

 

                              di Nicola Graziano

 

IL QUESITO

Tizia, a seguito di giudizio abbreviato, viene condannata per furto aggravato di cui agli artt. 624 e 625, comma I, n. 2., c.p. per aver occultato, all’interno di una borsa, della refurtiva prelevata dallo scaffale di un supermercato (capi di abbigliamento privi di placche antitaccheggio). La stessa, infatti, dopo aver occultato tali capi di abbigliamento nella sua borsa, passava le casse senza pagare ed usciva dall’esercizio dove veniva fermata dai Carabinieri cui era nota anche per precedenti analoghi.

Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizia, considerato che il titolare del supermercato, viste le condizioni economiche di Tizia, non aveva sporto querela, illustri motivato parere in vista dell’atto di appello avverso la sopra detta sentenza di condanna.

 

***

Gli strumenti per lo svolgimento

 

LO SCHEMA PER LA DISCUSSIONE DEL QUESITO

 

A – LE NOZIONI TEORICHE

1) Inquadramento generale

Il tema del furto in supermercato ha da sempre occupato la Giurisprudenza della Cassazione che, sotto diversi punti di vista, è stata chiamata a pronunciarsi.

Il caso sopra descritto analizza uno dei profili problematici del furto in supermercato e precisamente quello relativo alla contestazione della aggravante dell’uso del mezzo fraudolento di cui all’art. 625, comma I, n. 2 c.p. che è determinante ai fini della procedibilità d’ufficio o a querela della persona offesa (arg. ex art. 626 c.p.).

Di seguito poi saranno analizzate altre questioni sorte in merito, ad esempio, al momento consumativo del delitto di furto in supermercato, o ancora, circa la sussistenza di altre aggravanti ovvero dell’attenuante dello stato di necessità.

2) Le questioni di diritto sostanziale

A) La fattispecie del furto: inquadramento generale

Il delitto di furto apre il Titolo XIII del Libro II, Capo I del codice penale rubricato “delitti contro il patrimonio commessi mediante violenza alle cose o alle persone”.

L’art. 624, al comma I, punisce espressamente la condotta posta in essere da colui che si impossessa della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, con lo scopo di trarne un profitto per sé o per altri (il comma II specifica che per cosa mobile debba intendersi anche l’energia elettrica, oltre ogni altra energia che ha un valore economico).

Il reato può essere commesso da chiunque (trattasi di un reato comune) ed il bene giuridico protetto è costituito dal possesso o la detenzione, da ritenersi come relazioni di fatto che intercorrono tra la cosa e il soggetto.

La condotta punibile consiste quindi nella sottrazione ovvero nella privazione del bene senza il consenso del soggetto passivo e del successivo impossessamento inteso come l’acquisizione del potere autonomo sulla cosa.

Tale distinzione ha fondamentale importanza perché individua il discrimine tra la fattispecie consumata e tentata.

L’elemento psicologico richiesto per il reato di furto è il dolo specifico ovvero la coscienza e volontà di sottrarre la cosa mobile altrui ed impossessarsene al fine di trarne profitto per sé o per altri.

Il concetto di profitto va inteso in senso lato, così da comprendervi non solo il vantaggio patrimoniale, ma anche quello di natura non economica.

Il reato di furto è procedibile a querela della persona offesa, a meno che ricorra l’aggravante dell’aver cagionato un danno di rilevante gravità (art. 61 n. 7 c.p.) o una delle aggravanti specifiche previste dall’art. 625 c.p. cui si fa riferimento in seguito.

L’art. 625 bis c.p. detta la disciplina delle circostante attenuanti.

Esiste poi una forma di furto le cui sanzioni sono inasprite e precisamente sono le ipotesi disciplinate dall’art. 624 bis c.p. che prevede il furto in abitazione ed il furto con strappo. Tale norma è stata inserita al fine di considerare in via autonoma (e non più come mere circostanze aggravanti del furto) quelle condotte considerate maggiormente rischiose per l'incolumità dell'offeso.

Infine si ricordano le ipotesi speciali di cui all’art. 626 c.p. che sono il c.d. furto d’uso o il furto in stato di bisogno.

B) Le caratteristiche del furto in supermercato

Si tratta di una particolare e frequente ipotesi di furto che si verifica nel caso in cui un soggetto sottragga della merce dagli scaffali di un supermercato, occultandola su di sé o in una borsa o altro, superi la barriera delle casse, senza pagarne il prezzo, per poi essere fermato dagli addetti alla sorveglianza ovvero dalle forze dell’ordine all’uopo avvisate dal titolare del supermercato.

In questo caso si pone il problema, in via del tutto preliminare, di stabilire se in tal caso possa dirsi consumato il delitto di furto o solo tentato con evidenti conseguenze sanzionatorie.

Il furto è consumato nel momento in cui l’agente occulta la merce sulla propria persona? Quando supera la barriera delle casse? O quando supera tutti gli apparati di controllo predisposti (vigilanza, antitaccheggio, etc. etc.)?

Secondo una prima tesi va ritenuto consumato il reato nell’istante in cui il soggetto occulti o nasconda la merce, essendo il momento della sottrazione sovrapponibile a quello dell’impossessamento. Rileva la sola disponibilità materiale del bene da parte del reo, a prescindere dal fatto che il bene stesso, esca dalla sfera di dominio e vigilanza del soggetto passivo.

Un’altra tesi, attribuisce fondamentale rilievo alla presenza di un soggetto incaricato alla sorveglianza o di apparati di controllo. Qualora, dunque, un addetto sorvegli le fasi dell’azione furtiva potendo intervenire in ogni momento per evitare la consumazione del reato, in tal caso, il furto è solo tentato poiché il bene sottratto non è uscito dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto dell’offeso, che pertanto è in grado di esercitare su di esso la propria signoria.

E’ stato precisato che, qualora si tratta di beni esposti per la vendita in un esercizio commerciale, ai quali è stata applicata la placca antitaccheggio, l’integrazione del furto consumato avviene non al superamento delle casse ma nel caso di elusione dell’apparato antitaccheggio.

Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite Penali (Sentenza del 16 dicembre 2014, n. 52117) che hanno dettato il seguente principio di diritto: “in caso di furto al supermercato il monitoraggio dell’azione furtiva in essere, esercitato mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce ovvero attraverso la diretta osservazione da parte della persona offesa o dei dipendenti addetti alla sorveglianza ovvero delle forze dell’ordine presenti nel locale ed il conseguente intervento difensivo, impediscono la consumazione del delitto di furto che resta allo stadio del tentativo, non avendo l’agente conseguito, neppure momentaneamente, l’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sera di vigilanza e di controllo de soggetto passivo”.

Altra questione attiene alla contestazione dell’aggravante dell’uso del mezzo fraudolento nel furto in supermercato che si verificherebbe nell’ipotesi di mero occultamento all'interno di una borsa (o analogo contenitore), ovvero sulla persona, della merce sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale in cui sia praticata la vendita con il sistema self service.

In tal caso la Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, con sentenza del 30 settembre 2013, n. 40354 hanno escluso la configurabilità della aggravante stabilendo che: “La circostanza aggravante dell'utilizzo del mezzo fraudolento nel furto è configurabile allorché la condotta dell'agente sia connotata da marcata efficienza offensiva e insidiosità, tali da sorprendere la contraria volontà del detentore della cosa sottratta e vanificare le misure da lui apprestate a difesa del possesso. Ne consegue che essa non ricorre nel fatto di chi si limiti ad occultare sulla sua persona, o in un contenitore esterno, merce esposta sui banchi di un esercizio commerciale che pratichi la vendita con il sistema del self service, trattandosi di accorgimento inidoneo a vulnerare in modo apprezzabile le difese predisposte a tutela del possesso”.

In altre parole gli Ermellini nell’interpretare il significato dell'espressione “si vale di qualsiasi mezzo fraudolento” che compare nella seconda parte dell'art. 625.1, n. 2, c.p., in una interpretazione teleologicamente orientata verso la tutela del bene giuridico protetto ed il principio di offensività di cui all’art. 49 c.p., hanno ritenuto che la nozione di frode non possa identificarsi in un “qualunque banale, ingenuo, ordinario accorgimento” per realizzare la sottrazione della cosa, ma debba richiedere un quid pluris che è un'astuta, ingegnosa e magari sofisticata predisposizione. Logico l’ulteriore corollario: il puro occultamento della cosa prelevata dai banchi di vendita di un esercizio commerciale praticante la vendita con il sistema del self service sulla persona, in borsa o in qualsiasi altro contenitore nella disponibilità dell'agente risulta privo dei connotati di studiata efficienza aggressiva che caratterizza la circostanza aggravante in esame.

La tesi delle Sezioni Unite non è priva di rilevanza pratica perché la mancata contestazione dell’aggravante dell’uso del mezzo fraudolento determina la procedibilità per il furto commesso da Tizia solo in presenza della querela della persona offesa che in tal caso manca.

Va ricordato che le Sezioni Unite hanno affrontato anche il tema della legittimazione a proporre querele nel caso di furto in supermercato statuendo che: “Il bene giuridico protetto dal reato di furto è costituito non solo dalla proprietà e dai diritti reali e personali di godimento, ma anche dal possesso, inteso nella peculiare accezione propria della fattispecie, costituito da una detenzione qualificata, cioè da una autonoma relazione di fatto con la cosa, che implica il potere di utilizzarla, gestirla o disporne. Tale relazione di fatto con il bene non ne richiede necessariamente la diretta, fisica disponibilità e si può configurare anche in assenza di un titolo giuridico, nonchè quando si costituisce in modo clandestino o illecito. Ne discende che, in caso di furto di una cosa esistente in un esercizio commerciale, persona offesa legittimata alla proposizione della querela è anche il responsabile dell’esercizio stesso, quando abbia l’autonomo potere di custodire, gestire, alienare la merce”.

Lo stesso dicasi, più in generale ed al di là del caso descritto, sulla contestazione delle altre possibili aggravanti che secondo alcuni sussistono nel caso di furto in supermercato.

Esse sono l’aggravante della pubblica fede (art. 625, comma I, n. 7, c.p.) che si caratterizza nell’ipotesi in cui la cosa è esposta a pubblica fede per cui l’aggravante trova la ratio nella volontà di apprestare una più ampia tutela penale alle cose mobili lasciate dal possessore senza diretta e continua custodia, in modo permanente o per un certo periodo di tempo, per necessità o per consuetudine (come nel caso dei beni esposti sui banchi di vendita del supermercato ove vige il sistema del self service ma con alcune precisazioni).

In tal caso di è precisato che la presenza del monitoraggio dell’azione furtiva in essere, esercitato mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, ovvero attraverso la diretta osservazione da parte della persona offesa o dei dipendenti addetti alla sorveglianza esclude tale aggravante (come nel caso in esame descritto).

Inoltre sussiste l’aggravante della violenza sulle cose (art. 625, comma I, n. 2, prima parte, c.p.) nel caso di manomissione della placca antitaccheggio perché l’aggravante della violenza sulla cosa sussiste non solo in presenza di una rottura, un guasto o un danneggiamento, ma anche quando l’energia fisica sia impiegata determinando il mutamento di destinazione della cosa e sia diretta nei confronti dello stesso strumento materiale apposto sulla cosa per garantire una più efficace difesa della stessa ovvero ciò accade in caso di manomissione della placca antitaccheggio inserita sulla merce in offerta in vendita nei grandi magazzini e destinata ad attivare il segnale acustico ai varchi d’uscita (anche questa aggravante non sussiste nel caso in esame essendo gli abiti sottratti da Tizia privi di antitaccheggio).

Resta da completare il discorso sulla configurabilità nell’ipotesi di furto in supermercato della causa di giustificazione dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. E stato ritenuto che qualora si sia in presenza di furto di generi alimentari di pochi euro in presenza di soggetto senza fissa dimora e di occupazione non in grado di soddisfare i propri bisogni alimentari.

A tale tesi di contrappone parte della Giurisprudenza che ha escluso che si applica lo stato di necessità per chi per esigenza di alimentarsi, senza fissa dimora e occupazione, ruba generi alimentari in un supermercato. La ratio di tale esclusione è da individuarsi nel fatto che i senzatetto hanno la possibilità di ricorrere all’assistenza degli enti che, la moderna organizzazione sociale predispone per l’aiutarli. Ciò, dunque, esclude la sussistenza della scriminante, in quanto fa venir meno gli elementi dell’attualità e dell’inevitabilità del pericolo grave alla persona.

 

3) Le questioni di diritto processuale

Si tratta di redigere un atto di appello ponendo in evidenza a difesa di Tizia che, come chiarito dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, non ricorreva nel caso in esame una ipotesi di furto aggravato, valorizzando tra i motivi di appello le circostanze di luogo presenti al momento della commissione del furto e ciò al fine di esaltare la mancanza della querela della parte offesa ai fini della procedibilità per il furto semplice commesso. Inoltre si tenterà di dimostrare che la fattispecie di furto non si era consumata ma era da ritenersi solo tentata visto che Tizia non aveva conseguito la piena signoria sulla cosa sottratta.

 

B – LA SOLUZIONE DEL CASO

 

1) La sentenza in esame: Corte Suprema di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza del 30 settembre 2013, n. 40354

 

2) Riferimenti normativi: art. 624 c.p.; 625 c.p.

 

1.     D. Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizia, considerato che il titolare del supermercato, viste le condizioni economiche di Tizia, non aveva sporto querela, illustri motivato parere in vista dell’atto di appello avverso la sopra detta sentenza di condanna.

 

R. Le possibili interpretazioni

La questione di diritto:

“Se, con riferimento al reato di furto, il mero occultamento all’interno di una borsa o sulla persona della merce sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale nel quale si pratichi la vendita a self service configuri la circostanza aggravante dell’uso di mezzo fraudolento prevista dall’art. 625 c.p., comma 1, n. 2”.

La tesi che esclude l’esistenza dell’aggravante

In una recente sentenza (Sez. 6, n. 40283 del 27/09/2012, Diaji, Rv. 253776) relativa ad un caso in cui le scarpe sottratte erano state deposte nella borsa, si rimarca che la circostanza di cui si discute delinea un tratto specializzante della condotta rispetto all’ordinarietà. Il semplice occultamento della refurtiva rientra nelle modalità ordinarie del furto. Invece l’aggravante del mezzo fraudolento ricorre quando la condotta “presenti una significativa ed oggettiva maggior gravità dell’ipotesi ordinaria in ragione delle modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal possessore del bene sottratto”. Tale condotta deve consistere in una modalità peculiare, o nell’utilizzazione di un particolare strumento che consenta, oltre al mero occultamento, l’elusione del controllo sui beni esposti per la vendita. Ciò accade, ad esempio, quando il reo predisponga mezzi particolari per superare i normali controlli, come una borsa con doppio fondo, indumenti realizzati appositamente per agevolare l’occultamento della merce rubata, attrezzi per rimuovere o schermare le targhe antitaccheggio o per rendere comunque seriamente difficoltoso l’accertamento della sottrazione. Nello stesso senso, da ultimo, Sez. 4, n. 10134 del 19/01/2006, Baratto, Rv. 233716.

In altra sentenza relativa ad un caso in cui la merce era stata occultata nella tasca del giaccone indossato, si è ribadito che l’aggravante riguarda condotte caratterizzate da straordinarietà, improntate a scaltrezza, astuzia ed idonee ad eludere le cautele adottate dal proprietario: un elemento in più rispetto all’attività necessaria per operare la sottrazione. Nel caso esaminato tale situazione non si verificava, posto che la sottrazione era stata realizzata con il mezzo più semplice (Sez. 4, n. 24232 del 27/04/2006, Giordano, Rv. 234516).

In un caso in cui parte della merce prelevata dagli scaffali era stata nascosta in una borsa e non dichiarata alla cassa, si è esclusa l’aggravante posto che, se il cliente non nascondesse subito in qualche modo la merce sottratta, la consumazione stessa del furto sarebbe impossibile, poichè il personale sarebbe senz’altro in grado di accorgersi dell’asportazione: l’occultamento è il mezzo necessario e non può quindi rappresentare il quid pluris che concreta l’uso di mezzo fraudolento (Sez. 2, n. 291 del 08/03/1967, Castaidi, Rv. 105432).

In consonanza con tale indirizzo, in altre pronunzie si pone in luce la differenza tra il mero occultamento e l’adozione di più insidiose misure per soverchiare le difese apprestate dal possessore.

In un caso in cui le cose sottratte erano state nascoste in un’apposita panciera (Sez. 5, n. 11143 del 06/10/2005, Battisti, Rv. 233886), si è considerato che l’imputata non si era limitata ad impossessarsi della merce esposta, nascondendola e sottraendola al controllo degli addetti del supermercato, ma aveva operato con una maggiore astuzia, avvalendosi di tale apprestamento per superare gli accorgimenti approntati dal soggetto passivo a tutela delle proprie cose e, quindi, utilizzando un mezzo fraudolento.

L’uso di mezzo fraudolento è stato ravvisato anche nell’uso di pantaloni elasticizzati indossati sotto l’abito per favorire il nascondimento di quanto sottratto (Sez. 5, n. 15265 del 23/03/2005, Lamberti, Rv. 232142). Si è considerato che si è in presenza di accorgimento malizioso che, pur posto in essere dopo la sottrazione, in quanto finalizzato alla definitiva e piena disponibilità della cosa, configura l’aggravante quale espressione di maggiore criminosità desunta dalla dimostrata capacità di superare con la frode la custodia apprestata dall’avente diritto e tale, pertanto, da giustificare una più severa risposta sanzionatoria.

La tesi che ravvisa l’aggravante dell’uso del mezzo fraudolento

Altro contrapposto orientamento ravvisa l’aggravante in caso di occultamento di merce sulla persona (Sez. 5, n. 10997 del 13/12/2006, Rada, Rv. 236516); o sotto l’abbigliamento (Sez. 2, n. 1862 del 21/10/1983, Salines, Rv. 162897). Si argomenta che un comportamento siffatto è improntato ad astuzia e scaltrezza ed è diretto ad eludere e vanificare le cautele e gli ordinari accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa dei propri beni.

Anche l’occultamento sotto il cappotto di una giacca sottratta ha dato luogo alla configurazione della circostanza (Sez. 4, n. 13871 del 06/02/2009, Tundo, Rv. 243203). Secondo il giudice di merito, tale nascondimento di per sè, non configurava l’aggravante in questione, non trattandosi di attività idonea a sorprendere o soverchiare con insidia ed astuzia la contraria volontà del detentore La Corte di cassazione, invece, ha annullato con rinvio la pronunzia, affermando che l’aggravante è da ravvisare in ogni caso di comportamento con frode idoneo a superare la custodia apprestata dall’avente diritto sui suoi beni. In tale nozione rientra ogni operazione improntata ad astuzia o scaltrezza, diretta ad eludere le cautele ed a frustare gli accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa delle proprie cose, e cioè gli impedimenti che si frappongono tra l’agente e la cosa oggetto della sottrazione.

La tesi delle Sezioni Unite Penali e gli argomenti posti a fondamento della tesi che esclude la configurabilità dell’aggravante dell’uso del mezzo fraudolento

Le Sezioni unite ritengono che il primo indirizzo giurisprudenziale colga nel segno.

La questione prospettata pone un problema interpretativo che riguarda la determinazione dell’espressione “si vale di qualsiasi mezzo fraudolento” che compare nell’art. 625 c.p.

Il lessico della legislazione penale, per la sua spiccata vocazione generalizzante, mostra frequentemente l’uso di termini vaghi, elastici come “violenza”, “minaccia”, “osceno”, “onore”. Il loro significato deve essere definito, concretizzato dall’interprete al fine di conferire, per quanto possibile, reale valore alla legalità penale.

L’espressione di cui ci si occupa è per l’appunto vaga, ma nell’elaborazione giurisprudenziale di cui si è sopra dato sommariamente conto e negli studi dottrinali si rinvengono chiarificazioni sostanzialmente consonanti. Si parla di stratagemma diretto ad aggirare, annullare, gli ostacoli che si frappongono tra l’agente e la cosa; di operazione straordinaria, improntata ad astuzia e scaltrezza; di escogitazione che sorprenda o soverchi, con l’insidia, la contraria volontà del detentore, violando le difese apprestate dalla vittima; di insidia che eluda, sovrasti o elimini la normale vigilanza e custodia delle cose.

Tali definizioni spiegano bene la ratio della circostanza: le cose altrui vengono aggredite con misure di affinata efficacia che rendono più grave il fatto e mostrano altresì maggiore intensità del dolo, più intensa risoluzione criminosa e maggiore pericolosità sociale.

Si tratta di chiarificazioni che, se aiutano a cogliere il nucleo antigiuridico dell’aggravante, non risolvono i casi dubbi che si rinvengono solitamente nell’area grigia posta ai margini di quasi tutte le figure giuridiche.

L’inefficienza delle evocate definizioni nelle situazioni controverse, sfumate, che non mostrano macroscopicamente i tipici tratti di studiata, fraudolenta aggressività propri dell’aggravante, è testimoniata dal fatto che le medesime definizioni finiscono col dare copertura argomentativa a soluzioni antitetiche sul piano applicativo.

La ragione principale di tale insuccesso è costituita dal fatto che le chiose alla legge fanno uso di termini non meno vaghi di quelli utilizzati dal codice: sinonimi che risultano tautologici piuttosto che esplicativi.

L’analisi razionale della disposizione acquista qualche maggiore concretezza proprio attraverso il riferimento alle specifiche modalità dell’azione, alle tipologie dell’aggressione del bene.

Definita la fenomenologia, si tratta di comprendere se essa presenti intensità sufficiente a giustificarne la collocazione entro la fattispecie aggravante; se essa presenti il grado di disvalore che, nell’ottica della legge, giustifica la maggiore gravità del fatto e l’incremento della sanzione che ne deriva. Si tratta, in breve, di interpretare la disposizione aggravante al fine di definirne il contenuto offensivo tipico.

E’ dunque chiamato in causa, sia pure in peculiare guisa, il principio di offensività. Il tema ha straordinaria ampiezza e deve essere qui accennato solo per il decisivo rilievo che assume nell’interpretazione della fattispecie aggravata di cui ci si occupa.

La riflessione scientifica sui fondamenti della penalità ha rimarcato l’esigenza che il fatto di reato esprima oltre ad un dato naturalistico anche un momento di valore, un evento giuridico inteso come concreta offesa all’interesse delle vita tutelato dalla norma incriminatrice.

La tesi ha dapprima trovato fondamento normativo nell’art. 49 c.p., nel quale si è ritenuto di individuare un’ipotesi tipica di divergenza tra conformità allo schema descrittivo e realizzazione dell’offesa: un comportamento perfettamente corrispondente alla norma incriminatrice risulta per qualunque motivo posto in essere in circostanze tali da rendere impossibile la realizzazione dell’evento che costituisce il contenuto del reato. In breve il fatto, oltre a possedere i connotati formali tipici, deve anche presentarsi in concreto carico del significato in forza del quale è assunto come fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche.

La portata di tale concezione realistica del reato, basata sull’idea di offensività in concreto, è stata persuasivamente ridimensionata sulla base della considerazione che se l’interesse tutelato deve essere dedotto dall’intera struttura della fattispecie, riesce difficile immaginare un fatto conforme ad essa e non lesivo, sicchè l’inoffensività di un singolo elemento è in realtà l’inoffensività di un requisito del tipo.

Il principio di offensività ha trovato la più alta e compiuta espressione con la sua costituzionalizzazione, conseguita attraverso la lettura integrata di diverse norme: l’art. 27, comma 3, (l’equilibrio tra le funzioni retribuiva e rieducativa della pena rappresenta una saldatura tra il momento garantista o liberale della retribuzione per il reato necessariamente lesivo e le aperture sociali e solidaristiche della rieducazione); l’art. 25, comma 2 (la locuzione “fatto”, che esclude la visione dell’illecito come mera disobbedienza); l’art. 27, comma primo (il divieto di strumentalizzazione dell’uomo a fini di politica criminale).

Nel segno dell’offensività, il legislatore è vincolato ad elevare a reati solo fatti che siano concretamente offensivi di entità reali.

L’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi, offensivi in misura apprezzabile. Insomma, i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile, senza scarti di sorta, la specifiche offesa già contenuta nel tipo legale del fatto. E’ dunque sul piano ermeneutico che, come è stato suggestivamente considerato in dottrina, viene superato lo stacco tra tipicità ed offensività. I singoli tipi di reato dovranno essere ricostruiti in conformità al principio di offensività, sicchè tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l’aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell’interesse protetto. In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità.

Tale ordine concettuale ha altissime potenzialità, ancora non compiutamente espresse, nell’orientare l’interpretazione delle espressioni legali che individuano i tratti essenziali del reato; in modo che la severità della legge penale si limiti a mostrarsi, sensatamente ed equamente, solo di fronte a fatti gravidi di reale disvalore.

Si tratta di approccio che può essere trasposto, pur con ogni cautela e con le dovute precisazioni, anche nell’ambito degli elementi accidentali del reato costituiti dalle circostanze aggravanti. Attraverso esse il legislatore attribuisce rilievo ad elementi che accrescono il disvalore della fattispecie e giustificano un trattamento sanzionatorio più severo. Le valutazioni che attengono a tali scelte normative sono le più disparate ed attengono solitamente alla gravità delle conseguenze del reato, alle peculiarità della condotta, alle connotazioni dell’atteggiamento interiore.

Tali elementi, dunque, pur non concorrendo all’individuazione dell’offesa tipica, rilevano ai fini della definizione del grado di disvalore del fatto. Pure per essi si pone, dunque, un problema interpretativo volto a cogliere nel lessico legale una portata che esprima fenomenologie significative, che giustifichino l’accresciuta severità sanzionatoria. Si tratta di assicurare che l’incremento di pena sia proporzionato al grado dell’offesa o, in una prospettiva più ampia conformata sulle peculiarità della fattispecie aggravata, alle modalità dell’aggressione del bene protetto o all’intensità dell’atteggiamento interiore. Una lettura di tale genere dovrà considerare i tratti, le finalità dell’aggravante e la portata del relativo trattamento sanzionatorio.

Si tratta di considerazioni che si attagliano particolarmente alla fenomenologia di cui ci si occupa, giacchè l’aggravante afferisce alla condotta inerente al momento della sottrazione che, come si avrà modo di esporre più diffusamente nel prosieguo, costituisce il cuore della fattispecie e ne contrassegna significativamente il disvalore tipico.

Venendo alla specifica aggravante in esame, occorre brevemente rammentare che per tradizione risalente sino alla codificazione preunitaria il furto è stato disciplinato non con una accurata descrizione della fattispecie, bensì attraverso l’individuazione di numerose tipologie tipiche costituenti circostanze aggravanti. Uno stile esasperatamente casistico che si rinviene pure nel codice Zanardelli, ove compaiono ben venti categorie che racchiudono innumerevoli situazioni aggravanti, afferenti prevalentemente all’oggetto della sottrazione od alle modalità della condotta. Esse determinavano l’incremento della pena massima da tre a sei o ad otto anni a seconda che si fosse in presenza di una o più circostanze.

Il codice vigente ha sostanzialmente rispettato tale tecnica normativa. E’ stata proposta una definizione alquanto elaborata della fattispecie e sono state al contempo tratteggiate otto categorie aggravanti che riconducono a più affinata generalizzazione alcune delle situazioni previste dalla precedente legislazione. Tale generalizzazione ha condotto all’individuazione dell’aggravante della violenza o della frode.

Come è ben noto, tale modello casistito è accompagnato da uno speciale rigore sanzionatorio che a molti pare eccessivo, anche in considerazione del mutamento della gerarchia di valori determinato dalla Costituzione. Infatti, la pena massima ascende da tre a sei o a dieci anni a seconda che si sia in presenza di una o più aggravanti.

E d’altra parte, la varietà delle situazioni aggravanti rende difficile la perpetrazione del furto semplice.

Tradizionalmente il furto con frode, definito nei termini esplicativi di cui si è dato sopra conto, viene riferito a tipiche, ricorrenti situazioni come l’uso di chiavi false o grimaldelli, la scalata dell’edificio, l’uso di carte bancomat false e simili. Meno classificabile e più raro l’uso di raggiri o artifizi volti ad ingannare la vittima in modo che sia favorita l’acquisizione della cosa.

Si richiede, in breve, una condotta caratterizzata da marcata, insidiosa efficienza offensiva, che sorprende la contraria volontà del detentore, vanifica le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa ed agevola la spoliazione della vittima.

Due gli elementi di valutazione che si traggono da tale analisi della fattispecie. Da un lato l’istanza di speciale funzionalità aggressiva della condotta, attuata con artata predisposizione di mezzi o con ingannevole messa in scena. Dall’altro, la speciale gravità delle conseguenze sanzionatorie che da tale predisposizione derivano.

Coniugando tali coordinate, ne discende pianamente che un’interpretazione dell’idea di frode, con riferimento alla fattispecie di furto, deve tendere ad individuarvi condotte che concretino l’aggressione del bene con marcata efficienza offensiva, proporzionata allo speciale rigore sanzionatorio.

Tale interpretazione è ispirata al principio di offensività definito nei termini sopra esposti, afferente cioè non al nucleo offensivo del reato ma alle modalità offensive, aggressive, della condotta. Essa aiuta ad orientarsi nella già evocata area grigia posta ai margini della fattispecie aggravante. La condotta di spoliazione può rivelare diversi gradi di accuratezza nel contrastare le difese della vittima. Allora, alla luce delle considerazioni generali qui prospettate, la frode si riferisce non a qualunque banale, ingenuo, ordinario accorgimento, ma richiede qualcosa in più: un’astuta, ingegnosa e magari sofisticata predisposizione.

Entro questo ordine di idee traspare che il mero nascondimento nelle tasche, in borsa, sulla persona di merce prelevata dai banchi di vendita costituisce un mero accorgimento, banale ed ordinario in tale genere di illeciti; privo dei connotati di studiata, rimarchevole efficienza aggressiva che caratterizza l’aggravante. Per contro, uno sguardo ai casi proposti dalla prassi, consente di individuare condotte che presentano i tratti di scaltrezza, ingegnosità che connotano e delimitano la fattispecie. Ad essi occorre riferirsi, sia pure solo esemplificativamente, per sottrarre, per quanto possibile, l’argomentazione all’astrattezza. E’ allora sufficiente richiamare i casi del doppio fondo o della panciera per occultare abilmente la merce, o di accorgimenti per schermare le placche antitaccheggio.

Coglie dunque nel segno l’evocata giurisprudenza quando individua nella condotta fraudolenta un tratto specializzante rispetto alle modalità ordinarie, costituito da significativamente maggiore gravità a causa delle peculiari modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal possessore del bene. Non meno puntuale appare la sottolineatura della straordinarietà dell’azione, improntata a scaltrezza, astuzia.

Meno persuasivo appare il richiamo all’essenzialità dell’accorgimento ai fini della sottrazione. La considerazione, generalmente parlando, può avere qualche significato nell’ambito della peculiare fenomenologia di cui ci si occupa, nella quale emerge un tratto ineliminabile di affidamento al cliente, che limita l’efficienza delle difese, come testimoniato dalla grandissima rilevanza complessiva delle sottrazioni negli esercizi a self service. Si vuoi dire che, essendo solitamente limitate le difese e forte l’affidamento, è difficile (sempre in linea generale) che la condotta furtiva abbisogni delle ingegnose predisposizioni che danno luogo alla condotta fraudolenta tipica dell’aggravante. Si tratta, tuttavia, di un rilievo di sfondo che non può obliterare la considerazione delle peculiarità di ciascuna fenomenologia e di ciascun caso concreto. L’argomento, in ogni caso, risulterebbe erroneo e fuorviante ove venisse utilizzato in contesti caratterizzati da affinate difese antifurto che rendessero necessarie condotte di sottrazione violente o fraudolente. In tali casi l’essenzialità di tali condotte non farebbe certamente venire meno l’aggravante.

Il principio di diritto

“L’aggravante dell’uso di mezzo fraudolento di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 2, delinea una condotta, posta in essere nel corso dell’iter criminoso, dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza; volta a sorprendere la contraria volontà del detentore ed a vanificare le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa. Tale insidiosa, rimarcata efficienza offensiva non si configura nel mero occultamento sulla persona o nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita a self service, trattandosi di banale, ordinano accorgimento che non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene”.