Società

Legge capitali: fino a 10 voti per azione nelle non-quotate

Si possono attribuire voti plurimi a partire da, o fino a una certa data, si può inoltre programmare subordinatamente al verificarsi di certi eventi, o sessioni, o ancora, solo per alcuni soggetti

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di Andrea Fedi*

Dopo essere stato introdotto nel 2014 (ma con poche applicazioni pratiche) con l’obiettivo di sospingere le società ‘padronali’ verso la quotazione - consentendo ai loro soci di detenere azioni plurivoto, che avrebbero conservato tale privilegio anche dopo l’IPO - il legislatore concede adesso, con la L. 21/2024 , che le azioni a voto plurimo possano esprimere fino a 10 voti. Come dire: in una società in cui la metà del capitale è formata da azioni senza voto (cosa assolutamente possibile), l’altro 50% - quello con diritti di voto - può prevedere un 5% con azioni a forza decuplicata affidandogli il controllo dell’assemblea. 

Servirà questa flessibilità, che sgancia completamente i diritti di voto dall’investimento nel capitale? 

Forse non sarà tanto utile per sospingere verso la quotazione, quanto risulterà preziosa nel contesto delle privatizzazioni.

Certamente il nostro ordinamento manifesta una volta un’inclinazione alla duttilità nella corporate governance. Mentre resta dubbia la possibilità di voti frazionari (es. 1,5 voti per azione), è certo che lo statuto di una S.p.A. possa prevedere che, a una stessa azione, a seconda dei casi, possano essere associati diritti di voto ordinari (1 azione, 1 voto) o diritti plurimi, che possono essere essi stessi diversi a seconda delle circostanze (es. 2 voti in alcune ipotesi, 5 in altre o 10 in ancora altri scenari).

Si possono attribuire voti plurimi a partire da, o fino a una certa data ( sunset clauses ). Oppure programmare che il voto plurimo scatti o cessi subordinatamente al verificarsi di certi eventi (es. stato di crisi della società), o solo in alcune sessioni (es. in assemblea ordinaria e non in straordinaria), o solo per alcuni soggetti (es. per il proprietario e non per l’usufruttuario).

Ancora: si possono prevedere varie ibridazioni; ad esempio, si può prevedere che il titolare di tracking shares , il cui rendimento è collegato a un determinato ramo d’azienda, abbia diritti di voto plurimo sulle questioni inerenti detto ramo; oppure, strutturare diritti di voto plurimo a protezione di azioni sfavorite nelle distribuzioni o nell’allocazione delle perdite.

Evidentemente, si può poi pensare di collegare le azioni a voto plurimo a dei bond convertibili, prevedendo la conversione in azioni ordinarie o in azioni potenziate a seconda dello scenario.

Infine, l’accrescimento dei diritti di voto incorporati in un titolo azionario può essere ingegnerizzato in modo funzionale ad accordi di joint venture. In questo contesto, uno dei due joint venturers potrebbe acquisire diritti plurimi di voto laddove l’altro abbia cambiato controllo, o sia entrato in stato di crisi, o abbia violato lo statuto.

Il privilegio, risultando inerente al tipo di azione in sé per sé, di regola si trasmette all’acquirente, ma salva diversa previsione statutaria, che può altresì distinguere chi acquisti l’azione, chi la prenda in pegno, chi la sequestri o chi ne goda altrimenti.

Si dischiudono in tal modo possibilità nuove e di grande interesse per gestire gradualmente ed efficacemente la transizione generazionale tra founders e loro eredi (facendo decrescere, fino ad annullarlo, il voto plurimo dei primi), ma anche il passaggio del controllo da soci finanziari (ad es., fondi di private equity) a favore di nuovi investitori.

Di evidente utilità, infine, la possibilità di aumentare o diminuire il potere di voto dell’azione (ad esempio, in pegno a un finanziatore) nel caso di default.

Peraltro, la possibilità che l’azione accresca il proprio potenziale di voto (anche ai fini del calcolo dei quorum costitutivi) o resti ordinaria può essere utilmente dispiegata nel caso di acquisizioni soggette a controllo antitrust o a verifica circa l’esercizio di golden powers.

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*A cura dell’Avv. Andrea Fedi

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