Lavoro

Licenziamento del dirigente apicale: il difficile compromesso tra obbligo di fedeltà e diritto di critica

Il caso affrontato dalla sentenza riguarda il licenziamento di un direttore generale assunto il 26 Marzo 2013 e licenziato poco più di 5 mesi dopo, il 10 agosto 2013

immagine non disponibile

di Tommaso Targa*

Con sentenza n. 17689/2022 , pubblicata il 31 maggio 2022, la Cassazione torna a pronunciarsi su un tema dibattuto: quello dei limiti del diritto di critica di un dirigente nei confronti della proprietà e dei consiglieri di amministrazione, e della conseguente legittimità del licenziamento intimato per ritenuto superamento di tali limiti.

Il fatto. Il caso affrontato dalla sentenza riguarda il licenziamento di un direttore generale assunto il 26 Marzo 2013 e licenziato poco più di 5 mesi dopo, il 10 agosto 2013.

Al dirigente è stato contestato che, nell'ambito di una riunione del CdA, egli ha dato lettura a un documento, da lui redatto e consegnato brevi manu ai consiglieri, con cui ha espresso rilevanti perplessità sui contenuti della bozza di bilancio in corso di discussione, evidenziando che - ove tale bozza fosse approvata - ciò avrebbe potuto comportare responsabilità penali per i consiglieri e per lo stesso dirigente.

Dopo aver effettuato verifiche di natura tecnico-contabile, sollecitate dal collegio sindacale e dai revisori, è emersa l'infondatezza dei rilievi sollevati dal dirigente. Di qui il licenziamento per giusta causa.

Sia in primo che in secondo grado, il licenziamento è stato ritenuto legittimo e giustificato, con conseguente rigetto delle domande del dirigente volte a ottenere il pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso e dell'indennità supplementare prevista dal CCNL di categoria.

Dalla motivazione della sentenza della Cassazione si desume che il Tribunale ha acquisito prove testimoniali e disposto una CTU tecnica che pare abbia accertato una "parziale fondatezza delle critiche"; non è chiaro in che misura.

Le sentenze rese in sede di merito hanno richiamato il principio secondo cui il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro può essere esercitato legittimamente dal dipendente solo se basato su presupposti veritieri.

In particolare, la sentenza della Corte d'Appello – in un passaggio trascritto nel corpo della motivazione di quella della Cassazione - ha sottolineato le modalità "plateali" attraverso le quali il diritto di critica è stato esercitato, nonché il comportamento del dirigente, anteriore alla riunione del CdA, essendosi egli posto da subito in una posizione di disallineamento rispetto ai vertici aziendali.

Questi i passaggi salienti della sentenza d'appello: "La pacifica facoltà del dirigente "anche al solo fine di evitare di concorrere nelle responsabilità proprie della figura del direttore generale, di sollevare perplessità in ordine al bilancio della società datrice di lavoro, non legittimava lo stesso "specialmente nelle fasi iniziali del rapporto di lavoro a pubblicizzare le proprie perplessità, a descrivere sempre pubblicamente le fattispecie di reato potenzialmente configurabili in caso di mancato accoglimento dei rilievi dallo stesso sollevati ed addebitare la responsabilità ai membri del CdA…. le modalità comportamentali adottate dal dott… già nelle fasi iniziali del rapporto, rivelavano come lo stesso si fosse volontariamente posto in contrapposizione con le scelte adottate dagli organi gestionali della società".

Il dirigente ha impugnato la sentenza della Corte d'appello con 5 motivi di ricorso, due dei quali sono stati ritenuti fondati, con conseguente cassazione con rinvio.

I motivi non accolti. Il dirigente ha contestato la pretesa violazione del principio di immutabilità, sostenendo che il licenziamento sarebbe stato motivato dal comportamento da lui tenuto in seno alla riunione del CdA, mentre la Corte d'Appello avrebbe valorizzato la rilevanza di comportamenti anteriori e successivi rispetto a tale riunione.

Il motivo di ricorso è stato rigettato poiché la sentenza d'appello "non ha giudicato legittimo il licenziamento sul presupposto di fatti diversi da quelli contestati al lavoratore" e "non ha alterato gli elementi fattuali della condotta contestata", essendosi limitata a valorizzare maggiormente alcuni aspetti della condotta contestata rispetto ad altri.

Gli altri due motivi di ricorso rigettati riguardano il preteso difetto di tempestività della contestazione disciplinare e l'omessa valutazione di elementi di prova idonei a sorreggere la domanda di risarcimento del danno da demansionamento.

Qui la Cassazione si è limitata a richiamare la propria consolidata giurisprudenza secondo cui il principio di tempestività deve essere inteso in senso relativo: nel caso di specie, il tempo intercorso tra la riunione del CdA e quello della contestazione disciplinare, circa un mese e mezzo, è servito ad appurare i presupposti della suddetta contestazione e, in particolare, la ritenuta infondatezza delle censure, di natura tecnico contabile, mosse dal dirigente alla bozza del bilancio.

I motivi di impugnazione accolti. Il dirigente ha contestato l'omesso esame di fatti decisivi - in particolare la CTU tecnica che avrebbe accertato la parziale fondatezza delle sue critiche - e la violazione degli artt. 2392 e 2396 cod. civ.: norme relative al dissenso manifestato in seno alle riunioni del CdA, e alla responsabilità del direttore generale. E qui la sentenza della Corte d'Appello ha sicuramente un punto debole, poiché stigmatizza l'asserita violazione del principio di continenza da parte del dirigente, avendo egli rivolto le critiche alla bozza del bilancio "pubblicamente", e quindi con modalità improprie.

La Cassazione ha giustamente evidenziato che le riunioni del CdA non possono ritenersi un contesto pubblico, avendovi accesso solo i soggetti titolati, e sono al contrario la sede appropriata, nell'ambito della quale i partecipanti possono esprimere legittimamente il proprio dissenso. L'errore di diritto rilevato dalla Cassazione è dunque palese.

La Cassazione non si è però fermata qui. Con ampio escursus sulla propria giurisprudenza, la Suprema Corte ha espresso articolate considerazioni in materia di diritto di critica, obbligo di fedeltà e principi generali di correttezza e buona fede: considerazioni che rendono bene la difficoltà di trovare un confine netto tra comportamenti leciti ed illeciti, soprattutto se posti in essere da un dirigente apicale.

Al riguardo, la Cassazione ha anzitutto sottolineato la rilevanza costituzionale del diritto di critica, che trova un limite solo in altri diritti di analogo rango: quelli alla personalità, all'onore e alla reputazione. Ha quindi evidenziato che il diritto di critica si distingue rispetto al tema della facoltà / dovere di segnalazione di comportamenti illeciti ad autorità giudiziarie o amministrative.

La Cassazione ha argomentato che - pur non essendo configurabile un generico dovere dei cittadini che non svolgono pubbliche funzioni di denunciare comportamenti illeciti a loro noti - esiste tuttavia un favor dell'ordinamento nei confronti della "collaborazione prestata dal cittadino, in quanto finalizzata alla realizzazione dell'interesse pubblico alla repressione dei fatti illeciti".

Ciò premesso, e richiamata incidentalmente anche la recente normativa in materia di whistleblowing, la Cassazione ha ritenuto che un lavoratore possa essere sanzionato per aver denunciato supposti comportamenti illeciti del datore di lavoro solamente ove sussistano i presupposti della calunnia: ossia quando il dipendente è consapevole della falsità della propria denuncia.

La mera infondatezza della denuncia non potrebbe, invece, comportare conseguenze disciplinari poiché "la collaborazione del cittadino, che risponda ad un interesse pubblico superiore, verrebbe significativamente scoraggiata ove quest'ultimo potesse essere chiamato a rispondere delle conseguenze pregiudizievoli prodottesi a seguito di denunce che, sebbene inesatte o infondate, siano state presentate senza alcun intento calunnioso".

Una volta appurato che il dipendente può essere sanzionato per una denuncia da lui rivolta alle autorità, solamente laddove "l'iniziativa sia stata strumentalmente presa nella consapevolezza dell'insussistenza del fatto o dell'assenza di responsabilità del datore di lavoro", la Cassazione ha concluso che tale principio deve valere a maggior ragione, laddove il lavoratore non abbia effettuato alcuna denuncia, essendosi limitato a sostenere, nell'ambito dell'esercizio del diritto di critica e manifestazione del pensiero, che taluni comportamenti dei vertici aziendali potrebbero a suo dire astrattamente integrare un reato.

E ciò varrebbe anche per i dirigenti.

Come già detto, la cassazione con rinvio della sentenza della Corte d'Appello era inevitabile, avendo quest'ultima commesso un macroscopico errore di diritto laddove ha sostenuto che il diritto di critica sarebbe stato esercitato "pubblicamente" e in sede inopportuna, mentre invece la riunione del CdA rappresenta il contesto di elezione nell'ambito del quale il direttore generale può sollevare le proprie riserve.

Vi sono tuttavia alcuni passaggi nella sentenza in commento che lasciano aperto uno spazio di discussione, e consentono anche di sollevare alcune perplessità. Ragion per cui, da un lato, l'esito del giudizio di rinvio nel caso di specie non è poi così scontato; dall'altro lato, questa sentenza non esclude future pronunce, in sede di merito e anche di legittimità, che dovessero trattare con maggior severità comportamenti analoghi a quelli di cui si discute.

Un primo aspetto riguarda la rilevanza disciplinare di un comportamento colposo, soprattutto in caso di colpa grave, laddove posto in essere da un dirigente apicale. Infatti, pur a voler accettare che il diritto di critica sussista anche quando il lavoratore è inconsapevole della falsità dei fatti posti alla base di tale critica, è vero altresì che sul lavoratore grava generalmente un obbligo di diligenza, e ciò presuppone che gli debba accertare i fatti prima di rivolgere una critica: tanto più se tale critica consiste nell'affermazione della possibile rilevanza penale di comportamenti posti in essere dai vertici dell'azienda.

Dovendosi ritenere senz'altro esigibile che l'esercizio del diritto di critica sia preceduto da una indagine diligente da parte del dipendente, ciò vale analogamente e a fortiori con riferimento a un dirigente apicale, dal quale ci si aspetta un elevato livello di diligenza e di competenza.

Un secondo aspetto, collegato al primo, riguarda il complesso legame tra intensità del vincolo fiduciario che caratterizza il rapporto di lavoro dirigenziale, e rilevanza del disallineamento del dirigente sotto il profilo della giustificatezza del licenziamento.

Infatti, è innegabile che anche il direttore generale possa esercitare il diritto di critica, e che tanto più egli abbia la facoltà di esprimere il proprio dissenso rispetto ai contenuti del bilancio nelle sedi opportune. Ciò non esclude l'aspettativa dell'azienda di disporre di un direttore generale che non sia impulsivo, bensì moderato e attento a non muovere "a caldo" critiche ai membri del CdA, che in definitiva sono i suoi superiori gerarchici. Tali critiche non ponderate sono idonee a compromettere la reciproca fiducia e stima.

In questo quadro, una critica mossa magari in buona fede, ma con un eccesso di enfasi, e un difetto di previo necessario approfondimento, potrebbe forse non sorreggere la giusta causa di licenziamento, ma giustificare comunque un licenziamento non pretestuoso, e quindi escludere il diritto al pagamento dell'indennità supplementare prevista dal CCNL di categoria.

Quest'ultimo tema è rilevante economicamente, soprattutto in vicende – come quella affrontata dalla sentenza in commento – in cui le disposizioni del CCNL applicabili rationae temporis prevedevano criteri di determinazione dell'indennità supplementare più sostanziosi rispetto agli attuali.

*a cura di Tommaso Targa, Trifiro' & Partners - Avvocati

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©