Penale

Maltrattamenti in famiglia anche se manca la convivenza

Confermata la condanna del fratello amministratore di sostegno. Per la Cassazione, sentenza n. 43939 depositata oggi, permaneva un legame forte

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di Francesco Machina Grifeo

Scatta il reato di maltrattamenti in famiglia a carico del fratello “non convivente” che abbia assunto il ruolo di amministratore di sostegno della vittima, prestando anche “assistenza” nei momenti liberi della badante. Lo ha chiarito la corte di Cassazione, sentenza n. 43939 depositata oggi, superando la centralità del requisito della convivenza in favore di quello della permanenza di vincoli di “solidarietà” tra le parti anche se residenti in abitazioni separate.

Confermata dunque la condanna della Corte di appello nei confronti dell’imputato che teneva abitualmente condotte vessatorie ai danni del fratello bloccato su una sedia a rotelle da un grave handicap. In tal senso deponevano le dichiarazioni della vittima e della badante oltre ad un accesso al pronto soccorso a seguito di una aggressione fisica. Venivano inoltre segnalati atti che trasmodavano dai poteri dell’amministratore di sostegno, quali il mancato pagamento delle competenze sempre della badante e la requisizione della tessera bancomat e dei libretti di risparmio.

Così chiarita la condotta materiale ascritta all’imputato, prosegue la decisione, “non vi è spazio per escluderne la riconducibilità al reato di maltrattamenti, reato configurabile anche in assenza di un rapporto di stabile convivenza tra le parti, tenuto conto non solo del rapporto di consanguineità tra imputato e persona offesa, oggetto di contestazione fin dall’imputazione, ma anche del rapporto di cura che di fatto l’imputato svolgeva e che va ben al di là dell’assistenza prestata quale amministratore di sostegno”.

Il tema, si legge nella decisione, “non è di agevole ricostruzione poiché, in presenza di rapporti che originano nell’ambito dei rapporti di famiglia e tra consanguinei, si è ritenuto necessario, in dottrina, conferire centralità al requisito della convivenza, considerando non esaustivo, ai fini dei requisiti di soggettività attiva e passiva del reato, il mero rapporto parentale”.

Più articolata risulta invece la posizione della giurisprudenza di legittimità. Essa ritiene, infatti, che il sintagma “persona comunque convivente”, che figura nella disposizione di cui all’articolo 572 cod. pen., funge da elemento di specificazione del concetto “persona di famiglia” sicché, ove tra i soggetti non sussista un rapporto di convivenza, la permanenza di un vincolo di tipo esclusivamente formale non è sufficiente, di per sé, ad assurgere a criterio valutativo dirimente, dovendosi, viceversa, indagare la sussistenza o meno di un rapporto che nel suo sviluppo sostanziale mantenga le caratteristiche della familiarità e riveli la permanenza di vincolo di solidarietà che della “famiglia” costituisce il tratto fondante, non potendo, questa, ridursi ad un mero dato anagrafico.

Si richiede, pertanto, ai fini della configurabilità del reato, la permanenza di rapporti di reciproca assistenza morale e affettiva, e si ritiene il reato non configurabile ove risulti la definitiva disgregazione dell’originario nucleo familiare: con un accertamento che va ancorato a dati oggettivi (la permanenza di rapporti di reciproca assistenza morale e affettiva o la cessazione definitiva di qualunque rapporto tra i membri di una famiglia), piuttosto che ai dati della convivenza o coabitazione, che potrebbero risultare solo formali.

Si è, così, conclusivamente affermato il principio, condiviso oggi anche dalla VI Sezione penale, secondo cui il delitto di maltrattamenti (ex articolo 572 Cp) è configurabile nelle relazioni tra consanguinei, in quanto “persone della famiglia”, anche in mancanza di convivenza o dopo la sua cessazione, salvo che i vincoli di solidarietà, che costituiscono il presupposto della fattispecie incriminatrice, siano in fatto venuti meno per la definitiva interruzione di ogni rapporto tra le parti.

Tornando al caso in esame, dunque, non è rilevante la mancanza di un rapporto di convivenza tra l’imputato e la persona offesa, infatti, in presenza di un vincolo familiare forte quale quello tra fratelli, “deve rilevarsi come la sentenza impugnata abbia correttamente ritenuto perduranti gli intensi vincoli di solidarietà tra la persona offesa e l’imputato che si faceva carico, stabilmente e non episodicamente, della sua assistenza, nell’ambito di un rapporto rinsaldato dall’assunzione dell’incarico di amministratore di sostegno”.

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