Penale

Minori in carcere, se la pena supera una certa soglia no alle misure alternative

Lo ha deciso la Corte costituzionale, sentenza n. 231 depositata oggi (red. Amato) rigettando le censure

di Francesco Machina Grifeo

Non sono fondate le censure alle norme sui limiti massimi di pena previsti per consentire ai condannati minorenni di accedere alle misure di comunità dell'affidamento in prova ai servizi sociali e della detenzione domiciliare. Tali norme, infatti, non introducono un automatismo contrastante con la funzione di reinserimento sociale del condannato né comprimono le esigenze di individualizzazione del trattamento penitenziario minorile, derivanti dai principi costituzionali di protezione dell'infanzia e della gioventù e di finalizzazione rieducativa della pena.

È quanto si legge nella sentenza n. 231 depositata oggi (redattore il vicepresidente Giuliano Amato) con cui la Corte costituzionale ha rigettato le censure formulate dal Tribunale per i minorenni di Brescia agli articoli 4, primo comma, e 6, primo comma, del Dlgs n. 121 del 2018.

L'articolo 4, comma 1, stabilisce che «[s]e la pena detentiva da eseguire non supera i quattro anni il condannato può essere affidato all'ufficio di servizio sociale per i minorenni». L'articolo 6, comma 1, invece, consente di «espiare la pena detentiva da eseguire in misura non superiore a tre anni nella propria abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza o presso comunità». Ad avviso del giudice a quo, in funzione di tribunale di sorveglianza, entrambe le disposizioni in esame – nel subordinare l'accesso alle misure alternative da parte dei condannati minorenni a condizioni analoghe a quelle previste per gli adulti – violerebbero innanzitutto gli articoli 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, perché esse conterrebbero un automatismo, tale da impedire una valutazione individualizzata e caso per caso dell'idoneità della misura a conseguire le preminenti finalità di risocializzazione che debbono presiedere all'esecuzione penale minorile.

Un ragionamento che non ha convinto la Consulta. Per il giudice delle leggi infatti "deve escludersi che il mantenimento dei limiti normativi nell'accesso alle misure penali di comunità, stabilito dalle disposizioni censurate, configuri una preclusione contrastante con la funzione rieducativa della pena e lesiva del principio dell'individualità del trattamento penitenziario".

Anche se poi la decisione aggiunge che «assetti più flessibili e attributivi di maggiori spazi per una valutazione giudiziale – così come era stato previsto, per entrambe le misure penali di comunità in esame, dall'originario schema governativo di decreto legislativo – risulterebbero particolarmente appropriati». La Corte ha poi osservato che la disciplina delle misure di comunità per i minorenni si discosta da quella prevista dall'ordinamento penitenziario per gli adulti e, anzi, amplia le possibilità di applicazione delle misure extramurarie, come richiesto dalla legge delega.

In primo luogo, si legge nella decisione, "non è ravvisabile una manifesta irragionevolezza nella scelta legislativa di limitare l'accesso alle due misure penali di comunità in esame a coloro che debbano espiare pene particolarmente elevate. Invero – rispetto a pene superiori ai limiti stabiliti dalle disposizioni censurate – non può ritenersi né irragionevole, né sproporzionato, esigere che al condannato sia (temporaneamente) inibito l'accesso all'affidamento in prova o alla detenzione domiciliare. E ciò nel rispetto di altrettanto fondamentali esigenze di tutela connesse a condotte criminose che siano state ritenute, in concreto e attraverso un rigoroso accertamento giudiziale, meritevoli di sanzioni penali elevate".

Inoltre per i giudici non è vero che ne risulta "vanificata la funzione rieducativa della pena" in quanto non viene comunque preclusa la possibilità di fruire di altri benefici penitenziari. Mentre su un piano sistematico, il disegno riformatore del Dlgs n. 121 del 2018 si è comunque "mostrato sensibile alle opportunità di socializzazione". E vengono sottolineate le "rilevanti innovazioni" nell'organizzazione degli istituti penali per i minorenni, introdotte dalla norma, "allo scopo di garantire una permanenza rieducativa efficace all'interno degli stessi istituti".

In definitiva, le disposizioni censurate "realizzano una ponderazione degli interessi coinvolti che è espressione non irragionevole di discrezionalità legislativa". E dunque non contrastano con le esigenze di "individualizzazione del trattamento penitenziario minorile, derivanti dai principi costituzionali di protezione dell'infanzia e della gioventù (art. 31, secondo comma, Cost.) e di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.)".

La Consulta ha così dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 4, comma 1, e 6, comma 1, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103», sollevate, in riferimento agli articoli 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, e 76 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Brescia, in funzione di tribunale di sorveglianza, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

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