Penale

Misure di prevenzione dopo il carcere, la pericolosità sociale va sempre rivalutata

Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 162 depositata oggi, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14, comma 2-ter, del Dlgs 159/2011 limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni,»

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di Francesco Machina Grifeo

In caso di sospensione della misura di prevenzione a causa della detenzione, la pericolosità del soggetto deve sempre essere rivalutata dal giudice anche se il periodo di reclusione è stato inferiore ai due anni. Il principio di rieducazione della pena, unitamente a quello della attualità della “pericolosità sociale”, impone infatti che alla cessazione dello stato di detenzione il tribunale sarà tenuto a verificare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato. Sino a tale rivalutazione, dunque, la misura di prevenzione in precedenza disposta dovrà considerarsi ancora sospesa, e le prescrizioni con essa imposte non potranno avere effetto nei confronti dell’interessato. Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 162 depositata oggi, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 14, comma 2-ter, del Dlgs 159/2011, (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), limitatamente alle parole «se esso si è protratto per almeno due anni,».

Il Tribunale di Oristano era chiamato a decidere sulla responsabilità di un uomo che per cinque volte avrebbe violato la prescrizione di non allontanarsi di notte dalla propria abitazione. La prescrizione tuttavia era rimasta sospesa per il suo ingresso in carcere e sarebbe ripresa una volta scarcerato. E all0ra il Tribunale rimettente dubita della legittimità della disposizione nella parte in cui prevede che, in caso di sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale durante il tempo della detenzione, il tribunale è tenuto a verificare la persistenza della pericolosità “soltanto ove lo stato di detenzione si sia protratto per almeno due anni”.

La questione è rilevante, si legge nella decisione, perché, se fondata, permetterebbe all’imputato di essere assolto, dal momento che – non essendo stata effettuata alcuna rivalutazione – la misura della sorveglianza speciale precedentemente adottata nei suoi confronti non avrebbe potuto considerarsi ancora esecutiva.

La Consulta ricorda poi che nella “materia attigua” delle misure di sicurezza una risalente giurisprudenza ha giudicato incompatibili con il canone della ragionevolezza fondato sull’art. 3 Cost. varie presunzioni assolute di pericolosità sociale poste alla base di automatismi nell’applicazione di tali misure. Così, in una importante decisione (n. 291 del 2013), la Corte ha sottolineato che «salvi i casi in cui la misura di sicurezza sia applicata direttamente dal magistrato di sorveglianza – la valutazione di pericolosità sociale dovrà essere effettuata due volte: prima dal giudice della cognizione, al fine di verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza; poi dal magistrato di sorveglianza, quando la misura già disposta deve avere concretamente inizio, in modo tale da garantire l’attualità della pericolosità del soggetto colpito dalle restrizioni della libertà personale connesse alla misura stessa».

I medesimi principi sono stati applicati dalla Consulta alla materia delle misure di prevenzione, accomunate alle misure di sicurezza dalla finalità di «prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e [di] favorirne il recupero all’ordinato vivere civile» (sentenza n. 291 del 2013).

Successivamente, nel dichiarato intento di contribuire alla «certezza del diritto», con la legge 17 ottobre 2017 n. 161 (Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), è stata reintrodotta, di fatto, una presunzione di persistente pericolosità laddove la sospensione connessa allo stato di detenzione dell’interessato sia inferiore a due anni. Ma tale soluzione, si legge nella decisione, «non appare in sintonia con la ratio della sentenza n. 291 del 2013» e viola, anzitutto, l’art. 3 Cost., risultando per un verso intrinsecamente irragionevole, e per altro verso foriera di un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla parallela disciplina oggi applicabile alle misure di sicurezza.

Non vi è, infatti, «alcuna ragione per ritenere che nell’arco di un intero biennio la personalità di un individuo […] non possa subire significative modificazioni, quando si tratti di un individuo detenuto in esecuzione di una pena, e dunque sottoposto a un trattamento che per vincolo costituzionale è finalizzato alla sua rieducazione». Irragionevolezza, prosegue il ragionamento, che diviene ancor più evidente quando la fine della detenzione sia dovuta alla concessione di misure alternative, che presuppongono una valutazione positiva.

Inoltre, l’articolo 13 della Costituzione subordina la legittimità di eventuali restrizioni alla libertà personale non solo alla puntuale definizione per legge dei presupposti, ma anche al loro accertamento caso per caso da parte di un giudice.

Infine, la disciplina contrasta anche con l’art. 27, terzo comma, Costituzione: «Se è vero, infatti, che il successo di un trattamento rieducativo non è mai scontato, la presunzione legislativa in esame muove – come correttamente rileva il rimettente – dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario in ipotesi protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l’attitudine antisociale di chi vi è sottoposto». E allora, osserva causticamente il giudice delle leggi: «Se ritenuto corretto, un simile presupposto varrebbe a determinare di per sé l’incompatibilità con l’art. 27, terzo comma, Cost. di tutte le pene detentive di breve durata».

Invece, pur nella consapevolezza dei “molti ostacoli di ordine fattuale”, l’ordinamento «non può che muovere dalla premessa della idoneità anche delle pene detentive di durata non superiore ai due anni a svolgere una funzione rieducativa nei confronti del condannato». Il che, conclude la Consulta, impone di «lasciare aperta la porta a una verifica caso per caso se questo risultato sia stato raggiunto, o se invece persista, nonostante l’avvenuta espiazione della pena, una situazione di pericolosità sociale dell’interessato, che deve ancora essere contrastata mediante l’effettiva esecuzione della misura precedentemente disposta».

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