Penale

“Motivazione rafforzata”, i parametri di riferimento per l’assoluzione in appello

La Corte di cassazione, sentenza n. 36432 depositata oggi, mette nero su bianco quattro punti che il giudice di secondo grado non può aggirare in caso di ribaltamento della sentenza di condanna

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di Francesco Machina Grifeo

Sebbene in caso di ribaltamento della condanna di primo grado con una assoluzione, l’onere di “motivazione rafforzata” che grava sul giudice dell’appello abbia connotati diversi e meno “intensi” di quelli che viceversa servono per condannare a fronte di una assoluzione, non è tuttavia sufficiente una semplice ricostruzione alternativa dovendosi comunque rispettare determinati criteri. E la Corte di cassazione, con la sentenza n. 36432 depositata oggi, accogliendo il ricorso della Procura li mette in fila.

Il caso era quello di un dirigente dell’Ufficio Unep di un tribunale che era stato condannato in primo grado per peculato per aver utilizzato fondi riservati all’ufficio per l’acquisto di: cancelleria, software, timbri, testi giuridici ecc., per pagare il proprio avvocato in un procedimento civile intentato contro di lui da un terzo che lamentava di aver subito dei danni proprio in virtù di un suo provvedimento emesso in qualità di dirigente dell’ufficio. L’imputato si era difeso sostenendo di essere convinto di poter utilizzare quelle risorse “per far fonte a spese di lite in qualche modo imputabili all’ufficio” e che del resto le tre fatture emesse dal legale, con il relativo codice fiscale, erano indirizzate all’Unep. E la Corte di appello gli ha dato ragione.

La VI Sezione penale, investita del ricorso, ha per prima cosa ricordato che l’obbligo di motivazione rafforzata assume un contenuto diverso a seconda che il giudice di appello, in riforma della sentenza di primo grado, condanni o assolva. Il tema, chiarisce, attiene al rapporto tra motivazione rafforzata e “principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio”. “Mentre infatti – si legge nella decisione - per pronunciare nel giudizio di appello una sentenza di condanna a fronte di una pronuncia assolutoria in cui sia emerso un dubbio ragionevole, è necessario rimuovere il dubbio con un ragionamento che ne dimostri l’infondatezza ovvero l’inesistenza, nel caso, come quello di specie, di sentenza di assoluzione che riformi una precedente sentenza di condanna, nonostante l’obbligo di motivazione rafforzata, è in realtà sufficiente argomentare in positivo, nel senso che è necessario e sufficiente rappresentare l’esistenza del dubbio ragionevole”.

Se infatti per emettere una sentenza di condanna è necessaria la certezza della colpevolezza, la motivazione della sentenza che la ribalta “deve essere rafforzata sulla plausibilità di un ragionamento volto non già a far venire meno ogni ragionevole dubbio bensì a sollevarne uno”.

Così mentre nel caso di riforma di una assoluzione, il giudice di appello deve prima demolire il ragionamento del primo giudice e poi strutturare il proprio ragionamento che dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, il fondamento della tesi opposta, “in caso, invece, di integrale riforma migliorativa di una sentenza di condanna il giudice di appello “deve solo destrutturare il ragionamento del primo giudice, nel senso di configurare l’esistenza di un ragionevole dubbio”.

Allora, prosegue la Corte, è possibile allora indicare “alcuni parametri di riferimento” a cui il giudice di appello deve attenersi: a) dimostrare di avere compiuto un analisi stringente, approfondita, piena, del provvedimento impugnato; b) spiegare, anche in ragione dei motivi di impugnazione e del perimetro devoluto, perché non si è condiviso il decisum contestato; c) chiarire quali sono le ragioni fondanti - a livello logico e probatorio - la nuova decisione assunta; d) argomentare sul perché sussista un dubbio ragionevole originato dalla plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto rispetto a quella recepita dal giudice di primo grado.

Così ricostruito il quadro, prosegue il Cassazione, non è chiaro come mai la Corte di appello abbia ritenuto che delle somme che avevano la loro fonte giustificativa in un contenzioso giudiziario, “avrebbero potuto essere poste a carico di un fondo spese che, per legge, atteneva, invece, come detto, all’acquisto di registri, di oggetti cancelleria, di stampanti…”. Né quale fosse “l’inerenza delle spese personali” con “l’interesse pubblico che giustificava il ricorso a quel fondo”. Oppure perché l’intestazione delle fatture all’ufficio non dovesse rappresentare piuttosto un elemento a carico, non essendo stato chiarito se fu una iniziativa del difensore ovvero indotta dall’imputato.

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