Famiglia

No all'assegno divorzile se la ex moglie è diventata avvocato

La Corte di cassazione, ordinanza n. 12537 depositata oggi, ha infatti respinto il ricorso di un avvocato donna contro la decisione della Corte di appello che le aveva revocato

immagine non disponibile

di Francesco Machina Grifeo

L'agognata abilitazione all'esercizio della professione forense può rivelarsi un boomerang in caso di divorzio per la richiesta dell'assegno. La Corte di cassazione, ordinanza n. 12537 depositata oggi, ha infatti respinto il ricorso di un avvocato donna contro la decisione della Corte di appello che (nel 2020) le aveva revocato l'assegno alla luce del fatto che "risultava da tempo abilitata alla professione forense ed iscritta al relativo Albo, oltre che alla Cassa previdenziale di pertinenza". La donna aveva conseguito l'abilitazione pochi mesi dopo la cessazione della convivenza, nell'ormai lontano 2009.

Per i giudici, se anche i dati acquisiti non fornivano un "quadro sufficiente a dimostrazione di quanti e quali redditi le derivassero da tale attività professionale, in ogni caso, la sua non avanzata età, in uno con l'assenza di fattori impeditivi del concreto ed operativo esercizio (mai peraltro allegata, dedotta e dimostrata dalla ricorrente/appellata), portavano ragionevolmente ad escludere la sussistenza di ragioni oggettive di ostacolo alla capacità della donna di procurarsi mezzi "adeguati" al proprio sostentamento".

Una lettura condivisa dalla VI Sezione civile che ha bocciato tutte le doglianze della ex moglie. Per la Suprema corte, infatti, il giudice di secondo grado aveva giustamente accolto il ricorso dell'ex marito che lamentava la violazione dei parametri previsti dall'articolo 5 della legge 898/1970, dal momento che il Tribunale (nel 2017) aveva fondato la propria decisione su un criterio - quello del mantenimento del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio - non più attuale secondo l'insegnamento della Suprema Corte.

Mentre con riferimento al nuovo parametro indicato dalle S.U., quello del "contributo personale ed economico dato da ciascun coniuge alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune", l'apporto della ex al menage familiare non poteva essere considerato "significativo", sia per il fatto che ella "non ha prodotto reddito, essendosi dedicata agli studi universitari, sia per la breve durata del rapporto matrimoniale, pari ad appena tre anni, sia per la mancanza di figli e sia perché l'ex marito trascorreva fuori casa gran parte del tempo per via del lavoro".

In definitiva, per il giudice di secondo grado, e la Cassazione oggi ha convenuto, la donna "era libera di organizzare la giornata a proprio piacimento. Piuttosto era stato l'ex marito a consentire all'ex moglie di dedicarsi agli studi universitari durante la vita coniugale, attendendo costantemente al proprio lavoro per garantire un reddito alla famiglia, cosicché ella aveva potuto conseguire la laurea ed esercitare, conseguentemente, la professione legale, con acquisizione di una posizione reddituale superiore alla sua". Ricorso respinto e condanna alle spese legali ed al raddoppio del contributo unificato.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©