Non c’è diffamazione a mezzo stampa se il fatto è attribuito con incolpevole convinzione
Ma in questo caso il giornalista aveva tratto la notizia che un assessore fosse cocainomane da alcune sentenze che, essendo egli specializzato in diritto e lettore abituale di pronunce penali, non poteva considerare fonti in base al loro reale contenuto
La scriminante del diritto di critica e di cronaca - in relazione al reato di diffamazione imputato a un giornalista - opera quando le accuse siano mosse in modo fondato o il professionista sia fermamente e incolpevolmente - anche se erroneamente - convinto di quanto afferma. Solo così opera la cosiddetta scriminante “putativa” prevista dall’articolo 51 del Codice penale che contempla il caso in cui la condotta corrisponda all’esercizio di un diritto.
La Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 28621/2025 - ha rigettato il ricorso del professionista condannato per aver diffamato un assessore alla cultura di essere “cocainomane” e inoltre dedito allo spaccio della droga pesante. Condanna aggravata dalla diffusione a mezzo stampa via internet.
Il ricorso contestava l’intento diffamatorio dell’articolo in quanto il professionista - come anche rilevato dai giudici - aveva fondato la notizia diffusa via web sul testo di alcune sentenze dove l’imputato attribuiva l’identica condizione di cocainomane all’assessore ed era stato assolto dalla contestazione del medesimo reato aggravato dall’utilizzo della rete per veicolare il fatto attribuito.
La Cassazione respinge il motivo di ricorso facendo rilevare che l’assoluzione dell’imputato come emergeva dalla lettura delle sentenze utilizzate come fonti dal ricorrente fosse in realtà dovuta alla mancata prova della paternità dei post incriminati e della provata assenza di consapevolezza di stare comunicando con altri indistinti soggetti.
Non è quindi l’assenza di fondamento che viene contestata alla notizia diffusa dal ricorrente, ma la colpevole condotta di aver riportato come fonti decisioni giudiziarie che se lette nella loro interezza avrebbe dovuto far propendere il ricorrente - dicono i giudici - a considerare la loro irrilevanza ai fini dimostrativi della verità dell’accusa mossa all’assessore comunale.
A maggior ragione - dice la Cassazione - nel caso in cui il giornalista condannato era di ambito giuridico e il suo lavoro consisteva di fatto nella lettura di sentenze penali.