Non è falsa attestazione fornire più volte finte generalità
Non basta fornire più volte finte generalità, per rispondere del reato di falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sull'identità o su qualità personali proprie o di altri. Per rispondere del reato, infatti, occorre accertare quali tra le dichiarazioni rese siano davvero mendaci per individuare se, anche nel caso specifico, l'imputato abbia dichiarato il falso.
Lo precisa il Tribunale di Torino, con sentenza n. 5880 del 7 novembre 2016. Protagonista, uno straniero che, presentatosi spontaneamente presso l'ufficio immigrazione della questura – per manifestare la volontà di richiedere asilo politico – attestava false generalità agli ufficiali di polizia giudiziaria che procedevano alla sua identificazione. A provarlo, il carteggio compilato dall'uomo, da cui risultava un nome diverso da quello emerso da uno specifico accertamento. Di qui, il procedimento aperto a suo carico per il reato previsto e punito dall'art. 495 del Codice Penale. Ma il Tribunale lo assolve. Le fonti di prova che avrebbero dovuto inchiodarlo – marca il giudice torinese – erano costituite dalle dichiarazioni dell'agente in servizio presso l'ufficio immigrazione e dalle produzioni documentali del Pubblico Ministero, costituite da precedenti dattiloscopici e scheda di identificazione multilingue. Documenti da cui, si rileva, emergeva solo che una persona si era presentata in ufficio per chiedere asilo e che, nel compilare il modulo, dichiarava il proprio nome. Nome non corrispondente, è vero, a quello abbinato ad una precedente foto segnaletica. Tuttavia – spiega il Tribunale – non era stato possibile accertare, vista la mancanza di passaporto, quale delle due generalità declinate fosse quella esatta. Incertezza che impediva di raggiungere la «piena prova della falsità delle dichiarazioni rese» in quella precisa occasione e di affermare, di conseguenza, la responsabilità penale dell'uomo. Per condannarlo, conclude, sarebbe servito un accertamento preciso sulla sua reale identità o su altri elementi che avrebbero potuto dimostrare che – anche nel caso portato a giudizio – l'immigrato avesse dichiarato il falso. Nel sostenerlo, il Tribunale si allinea alla tesi della Cassazione per cui la condotta di colui che renda molteplici dichiarazioni, tutte fra loro diverse, in merito alle proprie generalità, non è sufficiente ad integrare il reato di cui all'art. 495 c.p. «non potendo ritenersi, in mancanza di un accertamento di quali tra esse siano realmente mendaci, che anche nell'occasione dalla quale muove l'addebito l'imputato abbia reso false generalità» (Cass. 41774/14). Orientamento, cui si associa la sentenza torinese, che si contrappone a quello fermo a sostenere che il reato risulta comunque integrato dalla condotta di chi fornisca ogni volta un nome diverso «non rilevando, a tal fine, il fatto che non sia stato possibile accertare le vere generalità del dichiarante e che questi, in una sola delle molteplici occasioni, possa, eventualmente, avere detto il vero» (Cass. 7712/15). Ecco che, non essendovi prova che l'imputato, anche nel caso specifico, avesse indicato false generalità, il Tribunale, aderendo al pensiero più garantista, ha ritenuto di doverlo assolvere, non essendo stata raggiunta, oltre ogni ragionevole dubbio, la prova della sua colpevolezza.
Tribunale Torino, Sezione 4 penale - Sentenza 5880/2016