Non è truffa ma falso in atto pubblico il finto pagamento Inps del commercialista
Falso materiale di un atto pubblico e non truffa per il commercialista che falsifica e mostra alla società cliente una comunicazione di sgravio redatta su carta intestata dell’Inps e ricevute di pagamento a Equitalia. Una “contraffazione” fatta per dimostrare di aver adempiuto agli obblighi di pagamento, quando i versamenti non erano mai stati fatti.
Il ricorso del professionista
La Corte di cassazione, con la sentenza 50196 del 15 novembre scorso, respinge il ricorso del professionista e avalla la scelta della Corte d’appello di assolverlo dall’originaria imputazione di truffa, con la formula perché il fatto non sussiste, condannandolo invece per falso in atto pubblico commesso da un privato, con il conseguente obbligo di risarcire i danni al cliente.
I giudici delle quinta sezione penale, respingono al mittente tutte le eccezioni della difesa del commercialista, che contestava sia la validità della testimonianza chiave delle parte lesa, considerata “de relato”, sia l’elemento soggettivo del reato.
Per quanto riguarda il primo punto, il ricorrente considerava non corretta la valutazione della Corte territoriale, la quale aveva concluso per la sua responsabilità, dando un peso determinante alla deposizione della società cliente, che si era costituita parte civile.
Dichiarazioni considerate attendibili benché basate solo sull’indicazione dei nominativi dei funzionari Inps dai quali la società aveva appreso che la documentazione consegnata dall’imputato era falsa.
Per la Cassazione però la testimonianza della parte civile, con l’indicazione dei nomi dei pubblici funzionari disponibili a confermare tutto, era valida, anche in presenza di ulteriori riscontri.
Il falso in atto pubblico
Non passa neppure il punto centrale del ricorso. Ad avviso della difesa, il falso in atto pubblico sarebbe concepibile solo quando si alterano dei documenti autentici, autenticati o di cui sia stata dichiarata la conformità all’originale. Una tesi che la Suprema corte bolla come infondata, alla luce dei chiarimenti forniti dalle Sezioni unite. Il Supremo consesso ha, infatti, precisato che il reato scatta «quando la copia si presenti o venga esibita con caratteristiche tali, di qualsiasi guisa, da voler sembrare un originale, ed averne l’apparenza...».
Il reato, sanzionato dagli articoli 476 o 477 del codice penale, c’è dunque quando lo stesso soggetto che produce la copia compie anche un’attività di contraffazione che incide materialmente sui tratti che caratterizzano il documento, dandogli una parvenza di originalità, tale da farlo sembrare “autentico” o una copia conforme.
In questo quadro, secondo la ricostruzione dei giudici, rientra il comportamento del commercialista che, per dimostrare di aver compiuto il suo dovere, ha consegnato documenti “fai da te” spacciandoli per originali.