Nullità ecclesiastica: il ricorso congiunto annulla l’ostacolo della convivenza
La convivenza tra coniugi durata più di tre anni impedisce la delibazione nell'ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario. Si tratta però di eccezione che può essere rilevata soltanto dalla parte interessata, perché prevista a tutela dell'affidamento incolpevole di uno dei due coniugi. Nel caso in cui pertanto marito e moglie presentino un ricorso congiunto, volto a chiedere la delibazione della sentenza ecclesiastica, la convivenza matrimoniale non si pone come ostacolo.
Con la sentenza 1495/2015, esprimendo tale principio di diritto, la Corte di cassazione, torna, in materia di delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di un matrimonio concordatario durato molti anni, aggiungendo un tassello a una questione che ha origini remote. La problematica infatti è stata a lungo oggetto di un contrasto giurisprudenziale, risolto con la recente sentenza 16379/2014 delle sezioni Unite (su «Guida al Diritto» n. 33/2014).
La vicenda all'origine della pronuncia - Una coppia, coniugata da sei anni, con due figli, chiedeva al tribunale ecclesiastico di dichiarare la nullità del matrimonio a causa dell'esclusione di uno dei bona matrimonii da parte del marito. L'uomo, in particolare, si era sposato escludendo dall'inizio che al vincolo fosse connesso l'obbligo di fedeltà (bonum fidei). Com'è noto la mancanza di accettazione del vincolo esclusivo di fedeltà all'altro coniuge, costituisce, per l'ordinamento canonico una causa di nullità del matrimonio.
Dichiarata pertanto la nullità delle nozze dalla competente autorità ecclesiastica, i due, con ricorso congiunto, si rivolgevano alla Corte d'appello per la delibazione della sentenza nell'ordinamento italiano. La Corte territoriale peraltro respingeva la loro domanda sulla base della considerazione secondo cui, la convivenza di sei anni osta, sotto il profilo dell'ordine pubblico interno alla delibazione della sentenza. La donna ricorreva allora in cassazione.
L'insufficiente tutela del coniuge - Per molto tempo matrimoni durati, a volte, anche decine di anni, venivano dichiarati nulli nell'ordinamento italiano mercé la delibazione di sentenze dei tribunali ecclesiastici. Unioni di venti o trenta anni, spesso arricchite dalla nascita di figli, venivano cancellate perché al momento del matrimonio uno dei due non credeva nella sacramentalità delle nozze, o nell'indissolubilità del vincolo coniugale (bonum sacramenti) o nell'apertura alla nascita di figli (bonum prolis), anche se tali riserve erano rimaste a livello di intenzione o pensiero non espresso. Così non è nell'ordinamento italiano in cui sono fondamentali i principi della tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole, considerati dalla giurisprudenza di legittimità parte integrante dell'ordine pubblico.
Problematica diviene inoltre in questi casi la posizione del coniuge economicamente più debole.
Com'è noto infatti in seguito a una dichiarazione di nullità matrimoniale al coniuge meno abbiente spetta un limitato trattamento economico regolato dagli articoli 129 e 129-bis del Cc a meno che nelle more del giudizio di delibazione lo stesso non abbia previamente ottenuto una sentenza di divorzio.
Il coniuge, in seguito dunque alla delibazione di una sentenza di nullità del matrimonio concordatario, risulta così, come più volte specificato dalla stessa Cassazione, insufficientemente tutelato rispetto al miglior trattamento che riceverebbe in seguito a una pronuncia di divorzio e ciò soprattutto quando la sentenza di nullità interviene a distanza di anni dalla celebrazione delle nozze e si sono consolidate situazioni, anche di comunione di vita, che vengono poste nel nulla dalla pronuncia stessa.
Gli interventi giurisprudenziali - La giurisprudenza italiana ha tentato di porre rimedio a tale situazione. Si sono susseguiti infatti vari interventi che attribuiscono rilievo, quale situazione ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, alla convivenza prolungata dei coniugi successivamente alla celebrazione del matrimonio (Cassazione 1343/2011 e 9844/2012). Quest'orientamento giurisprudenziale parte dalla fondamentale distinzione tra matrimonio atto e matrimonio rapporto e insiste su quest'ultimo aspetto, il matrimonio cioè vissuto, in relazione al quale sono da considerare gli effetti di ordine personale e patrimoniale che in conseguenza dell'instaurarsi del vincolo si producono tra i coniugi e tra gli stessi e i figli, nonché gli effetti derivanti da separazione o dallo scioglimento del vincolo.
In tal senso la giurisprudenza sottolinea che il codice civile, prevedendo espressamente termini brevi di impugnazione per far valere la nullità, attribuisce importanza alla volontà delle parti di continuare e sanare il rapporto matrimoniale durato a lungo e già, a volte, definito e regolato con la separazione personale tra i coniugi.
In quest'ordine di idee la giurisprudenza (richiamando Cassazione 19809/2008), rileva che l'ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un palese favor per la validità del matrimonio, quale fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di rilievo e tutela costituzionali, con la conseguenza che «i motivi per i quali esso si contrae, che, in quanto attinenti alla coscienza, sono rilevanti per l'ordinamento canonico, non hanno di regola significato per l'annullamento in sede civile».
Fondamentale in questo contesto è comunque la differenza tra la convivenza e la semplice durata del matrimonio. Si sostiene infatti che la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio concordatario contrasta con l'ordine pubblico italiano solo nel caso in cui, dopo le nozze, pur viziate, si sia instaurato tra i coniugi un vero consorzio familiare e affettivo, con superamento implicito della causa originaria di invalidità, al di là della durata legale del vincolo (Cassazione 1780/2012 e 9844/2012).
L'esistenza di un contrasto - Non tutta la giurisprudenza peraltro è stata concorde con tale linea interpretativa.
Alcuni interventi, affermano infatti che la convivenza, seppur protrattasi per molti anni non osta, sotto il profilo dell'ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico in quanto «non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l'istituto del matrimonio» (Cassazione 8926/2012).
Tale orientamento parte dall'assunto secondo cui la riserva di giurisdizione sopravvive a favore dei tribunali ecclesiastici per le cause volte ad accertare la nullità del matrimonio concordatario. Di conseguenza, si sostiene, le controversie relative all'accertamento della nullità del matrimonio concordatario rimangono riservate in toto alla cognizione degli organi giurisdizionali dell'ordinamento canonico, fermo restando che il giudice dello Stato continua ad avere giurisdizione sull'efficacia civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità attraverso il procedimento di delibazione, in cui si valuta il contrasto con l'ordine pubblico interno. In tal senso si precisa che pur essendo la disposizione canonica che consente l'impugnativa del matrimonio in ogni tempo contraria al principio imperativo, contenuto nell'ordinamento statuale, secondo cui non è consentita l'impugnazione del matrimonio civile simulato dopo il decorso di un certo periodo, tale regola non costituisce un principio fondamentale dell'ordinamento.
L'intervento delle sezioni Unite - Il recente intervento delle sezioni Unite mette un punto fermo alla diatriba (Cassazione 16739/2014).
Partendo dal presupposto della fine della riserva di giurisdizione mercé l'Accordo del 1984 (articolo 13), la Corte ha affermato che la convivenza tra coniugi, protrattasi per un certo periodo impedisce la delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico dichiarativa della nullità del matrimonio.
La convivenza deve però innanzitutto essere caratterizzata da «esteriorità» ossia essere riconoscibile all'esterno e perciò anche dimostrabile in giudizio, da parte dell'interessato, restando irrilevanti tutti gli aspetti del cosiddetto foro interno.
Deve inoltre trattarsi, si precisava, non di mera coabitazione ma di «consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo». Impedisce pertanto la delibazione della sentenza ecclesiastica non una mera coabitazione materiale sotto lo stesso tetto, ma solamente una vera e propria convivenza significativa di un'instaurata «affectio familiae, nel naturale rispetto dei diritti e obblighi reciproci», come tra veri coniugi, tale da dimostrare l'instaurazione di un matrimonio-rapporto duraturo e radicato, nonostante il vizio genetico del matrimonio-atto.
Peculiarità di tale sentenza è stata la determinazione precisa della durata della convivenza affinché la stessa possa essere ostativa a una pronuncia di nullità. La convivenza infatti deve, si precisava, essere stabile, essere durata cioè per un determinato periodo di tempo trascorso il quale può legittimamente dedursi anche una piena ed effettiva «accettazione del rapporto matrimoniale».
Tale durata veniva dalla Corte di cassazione determinata nel trascorrere di tre anni dalle nozze, tempo di convivenza necessario, ai sensi della disciplina in materia di adozione dei minori, ai fini di determinare la stabilità della coppia di coniugi aspirante all'adozione.
Quando assume queste caratteristiche la convivenza pertanto integra un aspetto essenziale e costitutivo del matrimonio rapporto, tale da potersi ricomprendere nella nozione di ordine pubblico interno ostativa, dunque, alla dichiarazione di efficacia nello Stato italiano della sentenza canonica di nullità del matrimonio.
La tutela del coniuge più debole - La sentenza in esame, anche se a una lettura veloce potrebbe sembrare il contrario, sposa quest'indirizzo giurisprudenziale. Precisa infatti il collegio, richiamando quanto sottolineato dalle sezioni Unite che la sussistenza di una convivenza coniugale durata per più di tre anni integra un'eccezione tale da impedire la delibazione della nullità del matrimonio.
Rilevante peraltro è la precisazione secondo cui si tratta di un'eccezione in senso stretto che può di conseguenza essere fatta valere solo dal coniuge, parte del rapporto matrimoniale. Tale situazione riguarda infatti, come precisato anche dalle sezioni Unite, la sfera personalissima dello svolgimento del matrimonio.
L'eccezione non può dunque essere eccepita dal pubblico ministero interveniente nel giudizio di delibazione, né essere rilevata d'ufficio dal giudice della delibazione.
Si pone infatti in materia una differenziazione a seconda che la domanda di delibazione sia proposta da entrambe le parti, tramite una domanda congiunta, oppure da una sola di esse.
Nella prima ipotesi sostenevano le sezioni Unite non vi sono dubbi che la sentenza canonica di nullità sia delibabile, anche in presenza di una convivenza coniugale dotata di tutti i caratteri richiesti della durata e della esteriorità, potenzialmente idonea a costituire ostacolo alla delibazione. È necessario infatti dare, sosteneva la Corte, prevalenza alla «consapevole, concorde manifestazione di volontà delle parti».
Si tratta di ipotesi in cui, come nella specie, non si ha la necessità di tutelare il coniuge incolpevole. Nel caso in esame in particolare era stato il marito a contrarre matrimonio pur in assenza di uno dei bona matrimonii. Nonostante ciò la donna, consapevole della situazione, desiderava palesemente che la sentenza ecclesiastica producesse i suoi effetti anche nell'ordinamento civile: entrambi hanno presentato richiesta di delibazione e, addirittura di fronte al rigetto del ricorso da parte della Corte d'appello, è stata la moglie a proporre impugnazione.
La riserva mentale - La questione richiama la disciplina della riserva mentale. È ben noto che non può essere resa esecutiva nell'ordinamento italiano la sentenza ecclesiastica che dichiari la nullità del matrimonio concordatario per esclusione unilaterale dei bona matrimonii, laddove la riserva mentale sia rimasta nella sfera psichica del suo autore e non sia stata manifestata, ovvero non sia stata conosciuta o conoscibile dall'altro coniuge, in quanto, in tal caso, si pone in contrasto con l'inderogabile principio della tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole.
Peraltro il limite dell'ordine pubblico così inteso non risulta travalicato laddove la richiesta di delibazione sia avanzata dal coniuge incolpevole, che abbia rinunciato a far valere la sua buona fede, o laddove lo stesso non si opponga rendendo così possibile la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità per esclusione unilaterale di uno dei bona matrimonii (Cassazione 21865/2005 e 1822/2005).
I provvedimenti conformi - Conformi ai principi dettati dalle sezioni Unite del 2014 sono altri due interventi della Corte di cassazione, coevi a quello in esame che sottolineano come non sia possibile delibare la sentenza che dichiara la nullità del matrimonio concordatario in presenza di una convivenza matrimoniale durata per più di tre anni.
Nel primo caso (Cassazione 1494/2015) il matrimonio era stato dichiarato nullo dai tribunali ecclesiastici per immaturità psicologica e impotentia coeundi del marito. La convivenza tra i coniugi era peraltro durata 12 anni durante i quali la moglie aveva assistito quotidianamente l'uomo alleviando la sua situazione fisica e psicologica.
La Corte, si è innanzitutto soffermata sul rapporto matrimoniale precisando che, nella specie, la coabitazione tra i due aveva dato luogo a una convivenza effettiva in quanto sostenuta dai doveri di assistenza e solidarietà che ne costituiscono il fondamento costituzionale. Ha di conseguenza sostenuto, richiamando in toto i principi dettati dalle sezioni Unite, che la dedotta esistenza di un'incapacità psichica originaria, astrattamente idonea a viziare il matrimonio atto non può «escludere l'indagine intorno ai parametri di ordine pubblico che governano il matrimonio rapporto, e in particolare non può trascurare il rilievo del carattere costitutivo della convivenza così come declinata dalle norme costituzionali interne, europee e convenzionali».
Anche nell'ulteriore sentenza n. 1493 del 2015, caso in cui si chiedeva la delibazione della nullità di un matrimonio dichiarata a causa dell'incapacità della moglie di assumersi le responsabilità nascenti dal matrimonio, la Cassazione ha respinto la domanda di delibazione, in quanto la convivenza si era protratta per vari anni.
Le osservazioni conclusive - La Corte di cassazione, pertanto, ha seguito, l'interpretazione dettata dalla recente sentenza 16739/2014, evitando così il sorgere di nuovi contrasti.
In effetti, in materia, dopo l'intervento delle sezioni Unite del 2011 (n. 1343), che accoglieva l'orientamento secondo cui una lunga convivenza impedisce la delibazione nell'ordinamento italiano della sentenza dichiarativa della nullità del matrimonio il contrasto non era stato sedato in quanto, come sopra specificato, vi erano stati interventi giurisprudenziali in senso opposto (Cassazione 8926/2012).
L'orientamento che attualmente si viene a consolidare se da una parte tutela la buona fede del coniuge impedendo la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio quando il rapporto matrimoniale, effettivamente vissuto sia durato più di tre anni, dall'altra in assenza di un interesse di tale coniuge alla conservazione della situazione consente la delibazione dei provvedimenti ecclesiastici, ciò sulla base dell'assunto secondo cui il principio di tutela dell'affidamento ancorché inderogabile appartiene alla sfera di disponibilità del soggetto.
Corte di cassazione - Sezione I civile - Sentenza 27 gennaio 2015 n. 1495