Parità di genere, il quadro normativo italiano
Barbara Pontecorvo, dirige Solomon, Osservatorio sulle Discriminazioni
Cercando la voce "donna" su un'importante Enciclopedia italiana, si viene rinviati, alla prima lettura, ai seguenti eufemismi: "buona donna, donna da marciapiede (o di malaffare o di strada, di facili costumi).
Scorrendo subito dopo nella definizione, ci si imbatte in diversi epiteti, quali "donna di casa, casalinga, massaia, cameriera, colf, collaboratrice domestica".
Abbiamo chiesto di intervenire sul testo riportato nella Enciclopedia, per apportarne una modifica sostanziale.
È evidente, e ne siamo ben consapevoli, come sia entrata nel linguaggio diffuso un'accezione misogina e denigrativa della concezione della donna.
Il quadro normativo italiano in tema di parità sociale e legislativa di genere, è composito e va dalla tutela costituzionale (in particolare, fondata su tre articoli: Art.3, Art.51 e Art.117), alla ratifica delle Convenzioni internazionali, quale la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979 e ratificata dall'Italia nel 1985, alle disposizioni recanti le modifiche delle norme per l'elezione dei membri italiani al parlamento europeo e per promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nei consigli e nelle giunte degli enti locali e nei consigli regionali, fino alla Legge Golfo-Mosca approvata a fine 2011 (prorogata con la Legge di Bilancio del 2020), che impone alle società quotate di riservare al genere meno rappresentato almeno un terzo dei posti negli organi di governo.
Nonostante le prescrizioni legislative, perfettibili ma non inadeguate, il nostro Paese risulta nel " Global Gender Gap Report 2020 " come l'ultimo tra i Paesi avanzati (al 76mo posto in una classifica che comprende 153 paesi), con previsioni di raggiungimento di una completa gender equality solo nei prossimi 100 anni circa.
Purtroppo, quindi, non sarà questa, né la prossima generazione a poter godere della parità di genere in ambito lavorativo.
Emergono molte contraddizioni dall'analisi dei diversi settori colpiti dal gender gap.
Qualche timido progresso si è registrato nell'ultimo anno nei settori di vertice, pari circa all'1% nell'assunzione degli incarichi apicali, con un aumento in particolare nel numero di amministratori di genere femminile.
Sappiamo bene, però, che le pari opportunità non si costruiscono nei CdA o nei Collegi Sindacali, ma nel radicale cambiamento nei modelli organizzativi, tesi a vigilare che non vi siano discriminazioni e disparità di trattamento salariale, a partire dai livelli operativi fino ad ogni livello di crescita manageriale.
Il numero di donne impiegate nel mondo del lavoro è di molto inferiore a quello degli uomini e l'era dello sviluppo tecnologico ha un impatto ancora maggiore sul divario.
Per ridurre il divario, occorre puntare sull'accesso delle donne alla preparazione tecnico-scientifica, ovvero alle materie STEM (Science, Technology, Engineering and Math), materie nelle quali le donne, che pur si laureano in numero maggiore degli uomini, hanno meno accesso.
Occorre poi vigilare perché nel comparto tecnologico delle aziende si riducano le discriminazioni di genere.
Una bassa partecipazione di donne allo sviluppo del mondo digitale, infatti, rischia ora di avere effetti non solo sotto il profilo del divario nel gender gap, ma anche nell'elaborazione dei software e negli algoritmi che regoleranno le società, che poi determineranno gli stereotipi per una cultura più inclusiva.
La pandemia globale ha purtroppo amplificato il fenomeno di gender gap.
I dati che emergono dal Report " The Impact of COVID-19 on Women ", che ha indotto le Nazioni Unite ad inserire il tema della gender equality tra gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, fa emergere che la pandemia ha inciso fortemente sui progressi fatti negli ultimi anni.
L'impatto economico del virus è stato grave soprattutto sulle donne, in termini di perdita del posto di lavoro, in termini salariali (quando lavorano hanno comunque uno stipendio inferiore) e nell'intensificazione del lavoro domestico (legato soprattutto alla chiusura delle scuole), a discapito dell'attività lavorativa.
Anche l'aspetto sociale della condizione femminile ha subito effetti sostanziali: durante il periodo di lockdown c'è stata una maggiore esposizione alla violenza di genere dovuta alla coesistenza domestica obbligatoria.
In alcuni territori, il ricorso alla violenza è addirittura raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
Ancora sotto il profilo sociologico, durante il periodo pandemico si è registrato un forte incremento, anche in termini di intensità, degli attacchi contro le donne, che risultano essere il principale bersaglio (prima rappresentato dagli immigrati) dell'odio in rete.
Oltre ai consueti atti di body shaming, molti attacchi sono stati rivolti alle donne, per colpirne la competenza e la professionalità.
Bersaglio dell'hate speech rivolto nei confronti del genere femminile è stata, dunque, la sfera lavorativa, già gravemente menomata, come detto, dagli effetti della Pandemia, con dati in esponenziale aumento nel Nord dell'Italia (la civilissima Milano in testa).
La strategia della UE presenta obiettivi ambiziosi già per il 2025, per un'Europa garante della parità di genere (porre fine alle violenze fisiche e verbali, la riduzione del divario di genere nel mercato del lavoro e soprattutto nei settori economico e politico, anche in termini salariali e decisionali.
Ma ciò che disorienta è il quadro culturale che emerge dalle più recenti fotografie, che ritraggono una condizione femminile relegata alla stereotipata categoria delle minoranze, che non permette di affrontare con la dovuta lucidità e lungimiranza il problema reale.
Non può più esser rimessa alla reazione momentanea di riprovazione sociale la subalternità della condizione femminile, che necessita invece di un intervento pubblico incisivo, che coinvolga in primo luogo le istituzioni e l'intera compagine politica e non solo le più sensibili minoranze di pensiero.
*di Barbara Pontecorvo, partner di Tonucci & Partners