Patente contraffatta: se non vi è prova che il reato è stato commesso in Italia, punibile l'uso di atto falso
I giudici della quinta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 54461 del 5 dicembre 2018 hanno ritenute che se la condotta non è perseguibile perché non vi è prova che il reato sia stato commesso in Italia, torna a essere punibile l'uso di atto falso.
La vicenda - Un conducente era stata condannato a pena di giustizia dal Tribunale di Milano in composizione monocratica in relazione al reato di cui agli articoli 477 e 482 del codice penale, per aver contraffatto la patente di guida nazionale marocchina emessa apparentemente dalle competenti autorità locali, esibendola durante un controllo di polizia giudiziaria, mentre si trovava alla guida di un'autovettura.
In seguito all'appello anche la Corte territoriale confermava la sentenza motivo per il quale l'imputato proponeva ricorso per cassazione lamentando vizio di motivazione in quanto la Corte territoriale non avendo accertato l'efficacia pubblicistica della patente di guida marocchina esibita, alla luce della giurisprudenza di legittimità, che ha rilevato come la falsificazione di un documento di guida straniero può costituire reato solo se sussistano le condizioni di validità di tale documento ex articoli 135 e 136 del codice della strada.
Nel caso de quo, quindi, considerato che dai precedenti penali appariva evidente che egli si trovasse sul territorio nazionale da oltre un anno, la patente marocchina non avrebbe potuto legittimarlo alla guida in Italia, non potendo neanche ritenersi che questo documento fungesse da atto identificativo, visto che il ricorrente era munito di passaporto al momento del controllo. Sulla questione principale oggetto di esame , secondo i giudici penali, essendo stato omesso ogni accertamento circa il luogo di falsificazione della patente e ritenuta falsificata in Italia solo in base a mere presunzioni, cade la condizione di procedibilità.
La decisione - Gli Ermellini annullano senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto, ritenuta la fattispecie di cui all'articolo 489 codice penale, rideterminando la pena in mesi due, giorni venti di reclusione, rigettando nel resto il ricorso. La motivazione della sentenza impugnata si basa sull'affermazione che l'imputato avesse quanto meno concorso nella falsificazione, quindi è stato ritenuto che - al di là delle sue affermazioni secondo le quali la patente era stata contraffatta in Marocco e inviatagli in seguito in Italia dal fratello - non emergessero elementi per ritenere che la patente fosse stata contraffatta all'estero, dovendosi, invece, ritenere plausibile che la contraffazione fosse avvenuta in Italia, poiché l'imputato aveva riportato condanne in Italia sin dal 2004.
Quindi la Corte ritiene che ai fini dell'integrazione del reato di uso di atto falso, è necessario che l'agente non abbia concorso nella falsità ovvero che non si tratti di concorso punibile, sicché sussiste reato quando la falsificazione non è punibile perché commessa all'estero, in difetto della condizione di procedibilità rappresentata dalla richiesta del ministro della Giustizia ex articolo 10 del codice penale, e l'agente abbia fatto uso dell'atto nello Stato. Ne discende, allora, la motivazione dell'accoglimento del ricorso, limitatamente alla qualificazione della condotta, come, peraltro, già chiesto dall'imputato con motivi di appello.
Cassazione – Sezione V penale - Sentenza 5 dicembre 2018 n. 5446