Per la Corte Europea è legittimo il tracciamento del dipendente tramite il geolocalizzatore dell'auto di servizio
Poiché sono stati considerati solo i dati di geolocalizzazione riferiti ai chilometri percorsi, l'ingerenza nella vita privata del ricorrente è stata limitata e proporzionale rispetto allo scopo perseguito
Il licenziamento intimato dal datore di lavoro basato sulle risultanze del sistema di geolocalizzazione dell'auto aziendale del dipendente è legittimo e la raccolta e il trattamento dei relativi dati non comportano una violazione dei diritti del lavoratore come sanciti dalla Convenzione dei Diritti dell'Uomo.
A stabilirlo, segnando un importante precedente su questa dibattuta tematica, è stata la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo n. 26968/1616 emessa a conclusione del procedimento Gramaxo contro Portogallo. È la prima volta che la Corte Europea si pronuncia su un caso di sorveglianza sul lavoro attraverso il sistema di geolocalizzazione e fissa i criteri per il giusto bilanciamento tra il diritto del lavoratore al rispetto della sua vita privata e le prerogative datoriali in termini di controllo sul corretto impiego dei beni strumentali.
Il caso sul quale è stata chiamata a pronunciarsi la Corte è relativo al licenziamento di un dipendente informatore scientifico del farmaco di un'azienda farmaceutica portoghese al quale, in ragione della mobilità associata al lavoro svolto, l'azienda aveva assegnato un'auto ad uso promiscuo, lavorativo e privato.
A distanza di tempo, la società aveva installato un sistema di posizionamento globale via satellite (GPS) su tutti i veicoli aziendali.
A seguito di un controllo dei dati raccolti attraverso i sistemi installati era emerso che il dipendente in questione aveva manomesso il funzionamento del sistema di controllo per far risultare un impiego del mezzo per motivi di lavoro superiore a quello effettivo e così un impiego del mezzo per motivi privati inferiore anche al fine di ridurrei i costi a proprio carico.
La società ha avviato, dunque, un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente sia per la manomissione del sistema di controllo remoto che per non aver lo stesso osservato l'orario di lavoro prescritto.
Il dipendente, considerando la decisione aziendale contraria alle regole sul trattamento dei dati personali, impugnava il licenziamento in sede giudiziale.
Dall'istruttoria avviata emergeva che l'azienda aveva provveduto ad informare i dipendenti dell'installazione del GPS e che la finalità perseguita dall'implementazione dello strumento era legata, da un lato, alla sicurezza del veicolo e dei suoi passeggeri e, dall'altro al controllo dei chilometri percorsi - inclusi quelli relativi agli spostamenti privati – per la corretta gestione delle spese aziendali; inoltre, l'azienda aveva precisato ai dipendenti che si sarebbe dato seguito ad un procedimento disciplinare in caso di contrasto tra i dati rilevati dal GPS e quelli registrati dagli dipendenti nel sistema aziendale.
Tenuto conto delle finalità perseguite dalla società, i giudici di primo grado avevano respinto il ricorso del dipendente, sostenendo che l'utilizzo del GPS non rappresenta un sistema di sorveglianza. Viceversa, la Corte di Appello aveva classificato il dispositivo GPS installato come un mezzo di sorveglianza vietato, ma aveva al contempo ritenuto che i dati raccolti sui chilometri percorsi potessero essere utilizzati poiché non monitoravano l'attività professionale del dipendente, conseguendone, anche in questo grado di giudizio, la legittimità del licenziamento. Inoltre, aveva rilevato la Corte di Appello, avendo il dipendente omesso di segnalare i chilometri effettivamente percorsi durante l'orario di lavoro e avendo a questo scopo manomesso il GPS installato nella propria autovettura, aveva violato il dovere di fedeltà nei confronti del datore di lavoro.
Il ricorrente ha conseguentemente adito la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, lamentando la violazione dell'articolo 8 della Convenzione dei Diritti dell'Uomo (diritto al rispetto della vita privata) nonché la violazione dell'art. 6 della medesima Convenzione (diritto a un giusto processo) poiché le decisioni dei giudici di primo grado si erano basate sui dati raccolti da dispositivi satellitari, prova che il ricorrente riteneva illecita e, dunque, non utilizzabile in sede processuale.
I Giudici della Corte Europea hanno come detto respinto il ricorso confermando da un lato che l'installazione di dispositivi di tracciamento satellitare costituisce indubbiamente uno strumento che può incidere sul diritto al rispetto della vita privata così come disciplinato dall'articolo 8 della Convenzione. Tuttavia, ha statuito la Corte Europea, avendo il datore di lavoro compiutamente informato i dipendenti, specificando il motivo dell'installazione del dispositivo (controllo dei e contenimento dei costi), nonché le conseguenze disciplinari in caso di condotte illecite, l'utilizzo di tali strumenti può definirsi legittimo.
Veniva rilevato, inoltre, che poiché erano stati considerati solo i dati di geolocalizzazione riferiti ai chilometri percorsi, l'ingerenza nella vita privata del ricorrente è stata limitata e proporzionale rispetto allo scopo perseguito (il controllo delle spese aziendali) con la conseguenza che non poteva configurarsi alcuna violazione dell'articolo 8 della Convenzione circa la liceità della raccolta dei dati (per tipologia) né una violazione dell'art. 6 per quanto riguarda l'utilizzabilità dei dati in giudizio ai fini probatori.
L'orientamento espresso dalla Corte Europea nella sentenza commentata rileva non soltanto quale precedente significativo in termini di tracciamento del dipendente tramite il geolocalizzatore dell'auto, bensì anche quale autorevole interpretazione più permissiva di quella sin qui elaborata dal Garante della Privacy italiano.
In una analoga recente questione su cui il Garante della Privacy nazionale è stato chiamato ad esprimersi ( provvedimento n. 9023246/2018 ), l'autorità aveva infatti vietato il trattamento dei dati alla società che aveva installato sistemi di geolocalizzazione sui veicoli aziendali, prescrivendo al fornitore del sistema di adeguare il dispositivo alla disciplina europea sulla protezione dei dati nonché di implementare sullo stesso una funzione che permettesse al dipendente la disattivazione il sensore di localizzazione.
Fermi restando limiti e confini delle fonti nazionali e degli organi di garanzia e indirizzo, alla luce dei principi espressi dalla Corte Europea parrebbe plausibile una svolta di maggiore apertura dell'ordinamento domestico in controtendenza rispetto all' approccio meno intransigente sull'utilizzo dei sistemi di controllo e monitoraggio quando non possano incidere sul rispetto della dignità del prestatore di lavoro o della sua sfera privata. Ciò seguendo la via che pare chiaramente indicata dai giudici europei e cioè che una mera valutazione quantitativa (nel caso di specie dei chilometri percorsi) non può concretare una violazione del citato diritto.
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*A cura degli Avv.ti Alberto De Luca, Claudia Cerbone - De Luca & Partners