Penale

Permessi premio, ammissibilità più ampia

Ergastolo ostativo, per i Tribunali di sorveglianzadiscrezionalità limitata

di Giovanni Negri

La Cassazione inizia a fissare le condizioni per il riconoscimento dei permessi premio dopo la caduta del divieto assoluto per i detenuti non collaboranti condannati all’ergastolo per reati di mafia. La Prima sezione penale, infatti, sentenza n. 33743, ha affermato che, per l’ammissibilità della domanda di permesso premio avanzata dal detenuto non collaborante, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 2019, è sufficiente l’allegazione di elementi di fatto che, anche solo in chiave logica, risultano tali da motivare l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata e del pericolo di un ripristino dei medesimi, idonei in quanto tali a contrastare la presunzione di perdurante pericolosità prevista dalla legge.

Accolto così il ricorso presentato da un condannato all’ergastolo per i delitti di omicidio e associazione di stampo mafioso contro la decisione del Tribunale di sorveglianza che aveva respinto la sua domanda di permesso premio, sostenendo che nella richiesta nulla era stato esposto sulla sorte degli altri aderenti all’organizzazione criminale e sulla «eventuale operatività della associazione nel territorio di origine».

La Cassazione puntualizza, innanzitutto, che la costruzione di una fattispecie di inammissibilità di una domanda richiede l’individuazione di un modello legale della stessa, applicabile in via generale e non può essere affidata alla sola discrezionalità dell’autorità giudiziaria giudicante.

In termini specifici, allora, l’onere di allegazione imposto al richiedente deve confrontarsi con i due elementi della mancanza di collegamenti attuali e con l’esclusione del pericolo di un loro ripristino. In questo senso allora il condannato che chiede il permesso premio deve illustrare gli elementi di fatto in grado di contrastare la presunzione di pericolosità.

Per esempio, l’assenza di procedimenti successivi alla detenzione, il mancato sequestro di comunicazioni, la partecipazione attiva all’opera di rieducazione. Però, «non può essere chiamato a ”riferire” (in sede di domanda introduttiva) su circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva e, soprattutto, non può fornire , in via diretta, la prova negativa”diretta” di una condizione relazionale quale è il”pericolo di ripristino” dei contatti». Il pericolo infatti, osserva la Cassazione, è sempre frutto di un giudizio prognostico che spetta al giudice, su cui l’interessato può incidere solo in maniera relativa, fornendo semmai attestazione della correttezza del percorso rieducativo.

Inoltre, per la Cassazione, stringere le maglie sul presupposto di ammissibilità della domanda priva il procedimento davanti all’autorità giudiziaria della possibilità di acquisire dagli organi territoriali un set di informazioni sul piano potenziali idonee a confermare oppure a smentire il positivo andamento dell’opera di rieducazione.

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