Psicologi militari equiparati ai medici, cade il no alla libera professione
Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 98 depositata oggi dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 210, co. 1, del Dlgs 66/2010
Per gli psicologi militari via libera alla libera professione in deroga al principio di esclusività vigente per i dipendenti della pubblica amministrazione al pari di quanto già previsto per i medici. Lo ha stabilito la Corte costituzionale, con la sentenza n. 98 depositata oggi, dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'articolo 210, comma 1, del Codice dell'ordinamento militare (Dlgs 66/2010), "nella parte in cui non contempla, accanto ai medici militari, anche gli psicologi militari tra i soggetti a cui, in deroga all'art. 894 del codice medesimo, non sono applicabili le norme relative alle incompatibilità inerenti l'esercizio delle attività libero professionali, nonché le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il servizio sanitario nazionale".
A rimettere la questione, con ordinanza del febbraio 2022, è stato il Consiglio di Stato investito dell'appello proposto dal Consiglio dell'Ordine degli psicologi del Lazio e da alcuni psicologi appartenenti al personale militare contro la sentenza con cui, nel 2016, il Tar il Lazio aveva rigettato i ricorsi contro il diniego dell'autorizzazione all'esercizio della libera professione.
Per la Consulta poiché entrambi i professionisti, medici e psicologi militari, "erogano prestazioni volte anche alla tutela dell'integrità psichica e, oggi, rientrano nell'unitaria categoria del personale militare abilitato all'esercizio della professione sanitaria, essi vanno equiparati sotto il profilo della facoltà di svolgere la libera professione". E ciò a prescindere dall'eventuale diversità di ruoli e di progressione di carriera. Anche perché "non emergono ragioni che giustificano il riconoscimento della predetta facoltà esclusivamente ai medici militari".
"La mancata estensione agli psicologi militari della disciplina derogatoria invocata dal rimettente – prosegue la decisione -, quindi, non risulta sorretta da alcun motivo giustificativo, proprio in considerazione della rilevata identità sia della categoria professionale cui appartengono gli uni e gli altri, quella dei sanitari militari addetti al SSM, sia dell'attività da essi svolta, diretta pur sempre alla cura della salute del paziente".
Del resto, argomenta la Consulta, il complessivo assetto normativo dimostra che la disposizione censurata "è riconducibile alla ratio di legittimare, in deroga al principio di esclusività del pubblico impiego (art. 53 t.u. pubblico impiego) e, in particolare, di quello militare (art. 894 cod. ordinamento militare), la libera professione del personale sanitario militare, purché svolta al di fuori dell'orario e dell'impegno lavorativo e nel rispetto delle direttive impartite dall'amministrazione, in relazione alle concrete esigenze del corpo di appartenenza del militare". "Tuttavia tale ratio è comune sia al medico sia allo psicologo militari e trova, peraltro, riscontro anche al di fuori dello specifico ambito militare, per i dirigenti del ruolo sanitario del SSN (sentenza n. 54 del 2015)".
Poiché, dunque le due fattispecie – quelle dei medici e degli psicologi militari – "rispondono alla medesima ratio derogandi e manca una giustificazione ragionevole e sufficiente a circoscrivere la norma censurata solamente ad una di essa, quella dei medici appunto, deve ritenersi sussistente la violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. Il limite all'estensione dell'art. 210, comma 1, cod. ordinamento militare che, pur costituendo una deroga a principi generali, è espressione di una ratio comune a medici e psicologi addetti al SSM, è, quindi, motivo di illegittimità costituzionale".