Quando fallisce un marchio? Guida alle soluzioni
L'evoluzione repentina e continua dei mercati, dei gusti dei consumatori, dei canali di vendita e la concorrenza sempre più agguerrita e talora sleale hanno messo in difficoltà più di una società italiana in svariati settori industriali
L'evoluzione repentina e continua dei mercati, dei gusti dei consumatori, dei canali di vendita e la concorrenza sempre più agguerrita e talora sleale hanno messo in difficoltà più di una società italiana in svariati settori industriali.
Dopo decenni di successi, può così accadere che queste imprese si vedano costrette al fallimento.
Cosa accade ai loro marchi più o meno storici, prestigiosi e rinomati?
Cercheremo di seguito di fornire un quadro sintetico delle problematiche connesse a questo tipo di situazioni, senza certamente la pretesa di compilare una guida esaustiva, ma con il semplice intento di impartire qualche utile (speriamo) suggerimento, a chi dovesse trovarsi a navigare nelle acque procellose delle procedure concorsuali.
Decadenza per non uso del marchio e fallimento
Un primo tema da affrontare è quello della possibile decadenza per non uso del marchio.
Ai sensi dell'art. 24, comma 1, c.p.i.: "A pena di decadenza il marchio deve formare oggetto di uso effettivo da parte del titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato, entro cinque anni dalla registrazione, e tale uso non deve essere sospeso per un periodo ininterrotto di cinque anni, salvo che il mancato uso non sia giustificato da un motivo legittimo".
La giurisprudenza si interroga da tempo sulla idoneità dell'evento-fallimento ad integrare un "motivo legittimo" capace di giustificare il mancato uso del marchio ed evitarne la decadenza con il decorso di un periodo superiore a cinque anni.
Alla posizione più risalente, che ammetteva una simile impostazione, se ne è -più di recente- affiancata una di segno contrario.
Il Tribunale di Milano ha chiarito, da ultimo nel 2013 e nel 2017, considerando pacifico il relativo assunto, che il fallimento del soggetto titolare del marchio non costituisce causa giustificativa della mancata utilizzazione dello stesso, ai sensi dell'art. 24 del codice della proprietà industriale.
La pendenza di una procedura concorsuale non esclude infatti, per la corte meneghina, la possibilità di fare uso della privativa, eventualmente anche concedendola in licenza a terzi. Il tutto ovviamente nel rispetto delle norme imperative di diritto fallimentare.
La posizione appare appunto consolidata.
Chiaramente, l'impossibilità di superare la presunzione sulla base del mero dato formale dell'intervenuto fallimento non esclude che si possa argomentare la sussistenza di un motivo legittimo in virtù di altri elementi, secondo le ordinarie regole in materia.
L'utilizzo del marchio anche durante il periodo (spesso piuttosto lungo) di svolgimento della procedura di fallimento non sarà di regola un problema in caso di esercizio provvisorio da parte del curatore. Diversamente, occorrerà procedere ad una tempestiva procedura di assegnazione, affinché il marchio non resti "inattivo" a lungo, pena la possibile dichiarazione di decadenza della registrazione del segno distintivo, con conseguenza perdita di valore dell'asset aziendale.
I contratti di licenza nell'ambito del fallimento
Un secondo importante tema relativo al destino dei marchi nell'ambito della procedura fallimentare è quello degli accordi di licenza.
Il contratto con cui il titolare del marchio si obbliga, senza privarsi del diritto, a permettere al licenziatario l'uso dello stesso, che sia in corso al momento del fallimento, è un tipico rapporto giuridico pendente.
Come tale, esso soggiace alla disciplina dell'art. 72 della legge fallimentare e resta pertanto sospeso, fino a che il Curatore Fallimentare, con l'autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare in luogo del fallito, ovvero di sciogliersi dal rapporto.
Resta ferma la facoltà del contraente in bonis di mettere in mora il Curatore, che può far assegnare dal Giudice Delegato un termine di sessanta giorni -al massimo- per la scelta tra le due alternative.
In mancanza di esercizio di qualsiasi facoltà, il vincolo viene meno.
Sono dunque inefficaci le clausole, talvolta inserite nei contratti standard, che comportano risoluzione ipso iure in caso fallimento di una delle parti del contratto.
Va, infine, ricordato che il contratto di licenza è un rapporto obbligatorio rientrante nella categoria di quelli ad esecuzione continuata o periodica. Esso dunque determina, ai sensi dell'art. 74 l.f., in caso di fallimento del licenziatario e di scelta del Curatore Fallimentare di prosecuzione del rapporto stesso, l'obbligo a carico della procedura di saldare integralmente gli importi dovuti al licenziante per royalties, sia sorti antecedentemente, sia successivamente all'apertura del fallimento.
Con ciò che ne consegue in termini di esperibilità dei rimedi ordinari di tutela del contraente in bonis, in caso di inadempimento dell'altra parte.
Il vantaggio della titolarità del marchio in capo a terzi rispetto al soggetto dichiarato fallito
Anche alla luce di quanto precede è doveroso interrogarsi sulle interazioni degli istituti del fallimento e del marchio, per tentare di prevenire qualsiasi detrimento al proprio segno distintivo, adottando preventivamente le più opportune iniziative a tutela dello stesso.
Va rammentato, in proposito, che, a mente dell'art. 1 della legge fallimentare, la declaratoria di fallimento può colpire unicamente gli imprenditori che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti pubblici e gli imprenditori che dimostrino il possesso congiunto di tre requisiti: i) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento (o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore), un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a € 300.000; ii) aver realizzato, nello stesso periodo, ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a € 200.000; iii) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a € 500.000.
L'intestazione del marchio in capo ad una persona fisica, che in virtù di un contratto di licenza ne consenta ad altri l'uso, permette dunque di annichilire il rischio dell'evento-fallimento del soggetto licenziatario. In tale ipotesi evidentemente il marchio di proprietà del licenziante persona fisica non sarà coinvolto nella procedura fallimentare, se non per quanto riguarda le sorti del contratto di licenza, come sopra visto.
Oltretutto, è da segnalarsi un ulteriore vantaggio riservato ai titolari di marchi persone fisiche, che lo concedano in licenza al di fuori di una loro attività d'impresa.
Le royalty da essi percepite, non trattandosi di redditi percepiti a fronte di attività lavorative, non saranno soggette ad alcuna contribuzione sociale a carico del percettore licenziante, che conseguentemente non maturerà trattamento previdenziale aggiuntivo.
In alternativa, e sempre allo scopo di sterilizzare il rischio di fallimento del soggetto che fa uso del marchio, è suggeribile che esso sia comunque intestato a società altra e diversa, non soggetta in base ai requisiti sopra evidenziati alla procedura fallimentare. Chiaramente questa soluzione può comportare aggravi in termini di costi gestionali del veicolo societario ad hoc, che in ogni caso si dovrebbero giustificare in funzione dell'annullamento del rischio di perdere la proprietà del marchio in caso di fallimento.
*a cura degli avv.ti Niccolò Ferretti e Alessandro Fermi dello Studio Nunziante Magrone
Revocatoria ordinaria dell’atto di scissione, competente il tribunale delle imprese
di Carola Pagliuca e Davide di Marcantonio (*)