Penale

Risponde di diffamazione e di istigazione a delinquere il tifoso che dileggia e inveisce sui social contro un calciatore

La pronuncia in esame offre diversi spunti di riflessione sulle possibili conseguenze di carattere penale derivanti da un utilizzo troppo disinvolto dei social network

di Alberta Antonucci , Mattia Miglio


La vicenda può essere così descritta: all'odierno imputato - tifoso di una nota squadra di calcio - veniva contestata la violazione delle fattispecie di diffamazione aggravata (art. 595 c.p.) e di istigazione a delinquere (art. 414 c.p.) per aver pubblicato sulla pagina Facebook della ricordata squadra calcistica alcune offese alla reputazione di un calciatore del team e aver ivi istigato altri tifosi a compiere azioni delittuose sempre nei confronti dell'odierna parte civile, nella convinzione che quest'ultimo avesse "venduto" alcune partite della squadra e fosse rimasto coinvolto nella vicenda legata al giro del "calcio scommesse".

Scorrendo le motivazioni della pronuncia, si può notare come la Suprema Corte confermi la ricostruzione logica adottata dalla Corte d'Appello di Torino, alla luce delle evidenze probatorie emerse nel corso del procedimento.

In particolare:

a) il personal computer in uso all'imputato conteneva alcune fotografie ritraenti la persona offesa e parzialmente coincidente con le immagini offensive postate a corredo delle offese; b) l'account da cui erano pervenuti gli insulti era stato consultato mediante connessioni operate con indirizzi IP riferibili all'imputato;
c) il consulente tecnico aveva riscontrato poi ricerche - da parte del PC sequestrato all'imputato - sul web di fotografie raffiguranti la persona offesa, oltre a constatare i collegamenti con la pagina Facebook della squadra, durante i quali erano state postate le fotografie oggetto di dileggio e di invettive; d) sempre sul personal computer in uso all'imputato era stata poi rinvenuta un'immagine identica a quella abbinata alla foto del profilo Facebook da cui erano partiti gli anatemi.

Nessun dubbio, infine, sulla riconducibilità all'imputato dell'uso del personal computer da cui erano stati postati i messaggi oggetto di imputazione: la Suprema Corte rileva infatti che al momento della perquisizione domiciliare nei confronti dell'odierno imputato (avvenuta presso l'abitazione ove questi risiedeva), il personal computer fu trovato acceso e in funzione.

Peraltro, nel superare le censure difensive - le quali avevano rilevato che l'odierno imputato si sarebbe trovato in un luogo differente rispetto a quello ove erano state postate le esternazioni offensive - la Corte rileva anche come non sussista alcuna incompatibilità tra i due accessi provenienti dallo stesso utente ma avvenuti nello stesso giorno in due luoghi diversi: l'odierno imputato, si legge, aveva fatto un primo accesso pomeridiano dall'utenza residenziale (sita in Piemonte) per poi accedere nuovamente di sera con un'utenza in uso alla sorella che si trovava in Liguria.

Tutto ciò premesso, le conclusioni a cui perviene tale pronuncia meritano qualche riflessione per le conseguenze che comportano a carico dell'imputato, al quale - come detto - non solo è stata contestata la violazione dell'art. 595 c.p., ma anche la (più grave) fattispecie istigatoria di cui all'art. 414 c.p.

Come noto a tutti, il mero fatto istigatorio (la c.d. istigazione sterile) - in seguito alla quale il reato non viene commesso, anche se l'istigazione viene accolta - non è suscettibile di punibilità ai sensi dell'art. 115 c.p., arrestandosi così al livello di quasi-reato, per il quale il legislatore ha previsto la possibilità di applicazione di una misura di sicurezza in caso di istigazione a un delitto poi non commesso (art. 115, comma 4 c.p.).

Tuttavia - l'art. 115 c.p. contiene infatti la clausola di riserva "salvo che la legge disponga altrimenti" - il codice incrimina comunque alcune fattispecie istigatoria, purché esse siano connotate da elementi di differenzialità rispetto all'ipotesi di cui all'art. 115 c.p.

Tra queste, rientra appunto l'art. 414 c.p., il cui elemento di specialità - che ne decreta la punibilità - è proprio rappresentato dalla pubblicità della condotta, che nel caso che ci occupa è stata determinata dall'utilizzo di Facebook.

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