Penale

Ristorazione, frode in commercio e profili di compliance

Sul titolare di un esercizio commerciale grava l'obbligo di impartire ai propri dipendenti precise disposizioni di leale e scrupoloso comportamento commerciale e di vigilare sull'osservanza di tali disposizioni, sicché, in difetto, si configura il reato di cui all'art. 515 cod. pen.

di Mattia Miglio

Con la pronuncia in commento (Corte di Cassazione, Sezione 3, Penale Sentenza 30 luglio 2020 n. 23181) la Suprema Corte offre interessanti spunti di riflessione a margine di una vicenda concernente un caso di (tentata) frode nell'esercizio del commercio nell'ambito della ristorazione.

Segnatamente, nel caso che ci occupa, all'odierna imputata - quale titolare di un ristorante - veniva contestata la violazione della fattispecie ex artt. 56, 515 c.p., per aver omesso di indicare nel menu dell'esercizio commerciale lo stato fisico di congelato o di surgelato di alcuni alimenti.

Avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte d'Appello, la ricorrente ricorreva evidenziando, da un lato, che la condotta oggetto di contestazione era imputabile non tanto alla titolare quanto al capo cuoco - il quale curava la redazione del menù - e, sotto altro profilo, rilevando che in ogni caso, ai clienti veniva data sempre fornita in via orale ogni informazione circa lo stato fisico, congelato o surgelato dei prodotti utilizzati per le portate indicate nella carta del ristorante.

Come si può leggere nelle motivazioni, la Suprema Corte respinge entrambe le argomentazioni difensive appena menzionate.

Nello specifico, la Cassazione esclude che la condotta contestata possa essere esclusivamente attribuita - come sostenuto dalla difesa - al capo cuoco, anziché alla titolare del locale, sull'assunto per cui "il reato di frode nell'esercizio del commercio, consumato o tentato, è riferibile al titolare dell'esercizio commerciale, anche quando lo stesso non sia la persona concretamente preposta alla vendita o alla consegna del bene, ed agisca accettando il rischio che dalla mancata indicazione di sue direttive di corretto comportamento ai dipendenti possa derivare la consegna di una cosa diversa da quella dichiarata".

Infatti, "sul titolare di un esercizio commerciale grava l'obbligo di impartire ai propri dipendenti precise disposizioni di leale e scrupoloso comportamento commerciale e di vigilare sull'osservanza di tali disposizioni, sicché, in difetto, si configura il reato di cui all'art. 515 cod. pen. sia allorquando alla condotta omissiva si accompagni la consapevolezza che da essa possano scaturire gli eventi tipici del reato, sia quando si sia agito accettando il rischio che tali eventi si verifichino (così Sez. 3, n 27279 del 26/03/2004, Rosi, Rv. 229348- 01). In coerenza con questa impostazione, inoltre, si è ripetutamente affermato che, in di frode nell'esercizio del commercio, il titolare di un piccolo esercizio commerciale è responsabile per la vendita di aliud pro alio anche se non è l'autore materiale della cessione".

Accanto a ciò, per quanto concerne la configurabilità del reato di tentata frode nell'esercizio del commercio quando la natura congelata o surgelata di alimenti disponibili nella cucina di un ristorante - pur non risultando dal menu - venga rappresentata a voce ai clienti, la Corte precisa invece che "la detenzione nella cucina di un ristorante di alimenti surgelati o congelati, non indicati come tali nel menu, integra il reato di tentata frode nell'esercizio del commercio, anche quando la "politica commerciale" dell'impresa preveda l'informazione orale ai clienti circa lo stato fisico della pietanza".

A sostegno di tale conclusione, la pronuncia rileva che, in base alle risultanze dibattimentali, era emerso, da un lato, che nel menu in uso nel locale non era indicata la presenza di prodotti congelati o surgelati e che numerosi alimenti — es: calamari, tortelli di ricotta e spinaci, trancio di ricciola — erano disponibili solo come congelati o surgelati e che, sotto altro profilo, il menu oggetto di contestazione era quello comunemente in uso nel ristorante senza che fosse emerso alcun elemento idoneo a far ritenere che la "carta" venisse costantemente rielaborata o che gli operanti si fossero recati nel locale proprio il giorno in cui la stessa era stata formata.

Sotto un profilo prettamente giuridico, la Suprema Corte richiama poi le indicazioni provenienti dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, ricordando che "integra il reato di tentativo di frode in commercio la mera disponibilità, nella cucina di un ristorante, di alimenti surgelati, non indicati come tali nel menu, indipendentemente dall'inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore (cfr., tra le tantissime, Sez. 3, n. 39082 del 17/05/2017, Acampora, Rv. 270836-01, e Sez. 3, n. 30173 del 17/01/2017, Zhu, Rv. 270146- 01). Questo orientamento discende dalla natura "sopraindividuale" del bene giuridico del reato di cui all'art. 515 cod. pen., il quale è previsto a presidio del corretto e leale esercizio del commercio e solo secondariamente dell'interesse del singolo consumatore [...]. Va inoltre aggiunto che alcune pronunce hanno anche espressamente precisato che la punibilità del venditore per il delitto di frode nell'esercizio del commercio non è esclusa nemmeno per il fatto che l'acquirente sia a conoscenza della diversità del prodotto rispetto a quello da lui richiesto (così, specificamente, Sez. 3, n. 49578 del 04/11/2009, Nigi, Rv. 245755-01, e Sez. 6, n. 4827 del 21/02/1986, Bagni, Rv. 172941-01). Tale conclusione, oltre che in linea con le esigenze di tutela del bene giuridico posto a fondamento del reato di frode nell'esercizio del commercio, sembra aderente anche al dato testuale dell'art. 515 cod. pen. La disposizione appena citata, infatti, sanziona, tra le altre, la condotta dell'operatore commerciale che «consegna all'acquirente [...] una cosa mobile, per [...] qualità [...], diversa da quella dichiarata o pattuita». Nel riferito contesto linguistico, la parola «dichiarata» risulta indicativa: la stessa, essendo collegata con la congiunzione «o» alla parola «pattuita», non può non avere un significato diverso ed ulteriore rispetto a quest'ultima, stante il principio di "utilità" e di significatività di tutte le singole locuzioni impiegate dal legislatore. Muovendo da queste indicazioni, appare ragionevole concludere che la pubblicazione dell'offerta, nel menu di un ristorante, di prodotti indicati senza alcuna menzione della loro natura congelata o surgelata costituisce "dichiarazione" affermativa di una qualità degli stessi diversa da quella reale".

Ne discende pertanto "che i prodotti erano descritti in modo non conforme al reale e che le eventuali informazioni dei camerieri ai clienti, «su richiesta» di questi, in ordine all'effettivo stato degli alimenti "non esclude l'obiettività del dato per cui nel menu l'informazione in questione non era presente" e che, di conseguenza, che "la messa a disposizione in un ristorante aperto al pubblico di un menu relativo ad alimenti dei quali non è indicata la natura di congelati o surgelati integra condotta idonea, diretta in modo non equivoco a consegnare «una cosa mobile, per [...] qualità [...], diversa da quella dichiarata», anche se la "politica commerciale" dell'impresa preveda l'informazione orale ai clienti circa l'effettivo stato fisico della pietanza" (p. 4).

Tutto ciò premesso, l'utilizzo dei termini "politica commerciale dell'impresa" ed "informazione orale ai clienti circa l'effettivo stato fisico della pietanza" porta a qualche riflessione sull'opportunità di rafforzare gli aspetti di compliance nell'ipotesi in cui l'attività di ristorazione venga svolta da una persona giuridica dotata di una certa complessità organizzativa tale da renderla un centro di imputazioni di rapporti giuridici distinto dalla persona fisica che opera materialmente.

Del resto, l'art. 515 c.p. - qui oggetto di contestazione - rientra tra i reati presupposto idonei a fondare la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche (art. 25 bis1 D.Lgs. 231/2001); responsabilità che - ovviamente in linea astratta - potrebbe essere configurabile ove i soggetti in posizione apicale e/o le persone sottoposte alla loro direzione o vigilanza pongano in essere atti ex art. 515 c.p. mediante la messa in commercio di portate culinarie di qualità inferiore e/o diversa rispetto a quella dichiarata nella carta del ristorante, al fine di incrementarne le entrate.

Per scongiurare tale ipotesi, anche nell'ambito della ristorazione può pertanto essere identificare e gestire preventivamente i principali rischi derivanti dall'esercizio dell'attività, rafforzando ed implementando le procedure e i protocolli di controllo delle fasi della messa in commercio dei beni, ed individuando i soggetti coinvolti e le rispettive sfere di responsabilità.

In questo senso, l'ente potrà predisporre apposite misure al fine di prevenire la diffusione ai clienti - anche sui canali social - di informazioni mendaci o imprecise sull'origine e qualità dei prodotti utilizzati per la preparazione delle pietanze indicate nel menu.

Accanto a ciò - sempre in via esemplificativa, senza pretese di esaustività - sembra opportuno implementare altresì le procedure di controllo sulla veridicità della data di scadenza o sulla quantità e qualità dei prodotti destinati alla composizione degli alimenti oggetto di futura messa in commercio.

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