Rubare un pc dallo studio legale è furto in abitazione
La Cassazione ribadisce che lo studio legale rientra nella nozione di "privata dimora"
Sottrarre un computer da uno studio legale integra il reato più grave di furto in abitazione e non di furto semplice. Lo ha ribadito la quinta sezione penale della Cassazione (sentenza n. 15216/2023) pronunciandosi sul ricorso di un uomo imputato del delitto ex art. 624-bis c.p. e dando continuità all'indirizzo giurisprudenziale in base al quale lo studio legale rientra nella nozione di "privata dimora".
La vicenda
Nel caso di specie, l'uomo, condannato per furto in abitazione aggravato dalla violenza sulle cose per aver sottratto un personal computer e una pen drive da uno studio legale, contestava innanzi al Palazzaccio l'interpretazione fornita dai giudici di merito che avevano eseguito la diagnosi differenziale tra il delitto di furto e quello di furto in abitazione "esclusivamente sulla base dello ius excludendi alios, indubbiamente esercitabile anche dal titolare di uno studio professionale". Contestava inoltre la mancata concessione delle attenuanti comuni ex art. 62 n. 4 c.p.
La decisione
Per gli Ermellini, il ricorso è inammissibile.
Intanto, è orientamento consolidato quello per cui "lo studio legale rientra nella nozione di privata dimora" e si "caratterizza sia per lo ius excludendi alios sia per l'accesso non indiscriminato del pubblico sia infine per la potenziale presenza di persone anche nell'orario di chiusura, proprio perché il titolare è libero di accedervi in qualunque momento" (cfr. ex multis, Cass. n. 45088/2022; n. 38412/2021; n. 34475/2018).
Ciò del resto, in modo perfettamente conforme alle linee direttrici fissate dalle Sezioni Unite nella sentenza che il ricorrente richiama (Sez. U, n. 31345/2017) che, "con l'avallo della giurisprudenza costituzionale che ha approfondito la tutela del domicilio garantita dalla Cost., art. 14 (in particolare, sent. n. 149 del 2008), accedendo ad una nozione ristretta e letterale della locuzione ‘privata dimora' – tuttavia definendo – ‘indiscutibile' che in uno studio professionale o in qualsivoglia altro luogo di lavoro si compiano anche ‘atti della vita privata'".
Ciò premesso, le SS.UU., proseguono da piazza Cavour, "hanno ritenuto che ciò che realmente distingue il luogo di lavoro dalla privata dimora (o dalle pertinenze di esse) cui si riferisce l'art. 624-bis c.p. è la possibilità che tali atti della vita privata vengano compiuti ‘in modo riservato e precludendo l'accesso a terzi'". Esattamente, dunque, "quanto accade in uno studio legale, soprattutto negli orari in cui il pubblico non vi può accedere liberamente", come nella fattispecie in esame.
Inammissibile, in quanto manifestamente infondata, è pure la doglianza sulla mancata concessione delle attenuanti ex art. 62 n. 4 c.p.
La disposizione infatti prevede che nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, sia cagionato alla persona offesa un "danno patrimoniale di speciale tenuità", certamente non ricorrente nel caso di specie, dove, oltre ai danni cagionati dalla violenza esercitata sulla porta di ingresso dello studio, la sottrazione ha avuto ad oggetto un pc, "cioè un bene che, anche se non nuovo di fabbrica, non può definirsi certo di valore ‘irrisorio'". Peraltro, osservano ancora dalla S.C., "si trattava del computer in uso ad uno studio legale, e dunque di un bene dotato di un valore ulteriore (anche patrimoniale) rappresentato dal complesso dei dati e delle informazioni professionali in esso custoditi".
Per cui, essendo senza dubbio corretta l'interpretazione della Corte d'appello, scatta la declaratoria di inammissibilità del ricorso cui consegue anche la condanna del ricorrete al pagamento delle spese processuali e di 3mila euro alla Cassa delle Ammende.