Sanzionato l'avvocato che cofirma senza essere abilitato per la giurisdizione superiore
La ha stabilito la Cassazione, sentenza n. 21069 depositata oggi, dichiarando inammissibile il ricorso di un legale sanzionato con la censura
Scatta la sanzione disciplinare per il legale che apponga la sua firma sugli atti difensivi presentati innanzi a una giurisdizione superiore per la quale non è abilitato. E ciò anche se gli altri legali del pool sono regolarmente abilitati. La Cassazione, sentenza n. 21069 depositata oggi, ha così dichiarato inammissibile il ricorso di un legale a cui era stata irrogata la censura dal Coa di Ancona per avere svolto attività defensionale avanti al Consiglio di Stato. In particolare "accettando il mandato, seppure unitamente ad avvocati abilitati, certificando l'autenticità delle sottoscrizioni dei clienti e sottoscrivendo i ricorsi e le memorie" nell'ambito di una serie di giudizi espletati nel 2011 e nel 2012.
Secondo il ricorrente, il Consiglio di disciplina era incorso in una "errata interpretazione" dell'art. 36, n. 1, del Codice Deontologico forense (già art. 21 del VCDF). Egli, infatti, per un verso, aveva informato le società facenti capo all'Ati della mancanza di abilitazione al patrocinio avanti alle giurisdizioni superiori; per l'altro, su loro richiesta aveva indicato degli avvocati abilitati affiancandoli "per il compimento di attività di raccordo e di supporto" senza tuttavia mai entrare nelle "attività difensive" vere e proprie o partecipare alle udienze (alle quali egli aveva assistito nel settore dedicato al pubblico). Infine, la sottoscrizione degli atti difensivi da parte sua non aveva «causato conseguenza alcuna sugli atti stessi (vitiatur sed non vitiat)».
Per le S.U. tuttavia il motivo è inammissibile, in quanto volto a una rivisitazione del merito della controversia che - nelle intenzioni del ricorrente - dovrebbe ruotare intorno al principio di proporzionalità e dovrebbe pervenire alla conclusione dell'inoffensività della condotta tenuta dal professionista non abilitato nell'espletamento dell'attività di "affiancamento" all'avvocato abilitato.
La Cassazione chiarisce però che il criterio della proporzionalità "non risulta di per sé idoneo ad escludere la rilevanza del dato oggettivo dell'espletamento dell'attività, apparendo piuttosto funzionale ad una censura sull'adeguatezza della sanzione applicata che, tuttavia, non è stata specificamente svolta in questa sede". Il ricorrente infatti ha contestato la configurabilità stessa dell'illecito disciplinare. Tantomeno, conclude la decisione, "risulta postulabile il difetto di offensività di una condotta che, essendo espressamente vietata, risulta per ciò stesso valutata - a priori e in termini generali - come lesiva dei valori e degli interessi sottesi alla normativa deontologica".