Se il coltivatore della canapa rispetta le condizioni di liceità il commercio è legittimo
Alla luce della disciplina introdotta dalla legge n. 242 del 2016, relativamente al commercio della cannabis light, il commerciante va esente da responsabilità penale ricorrendo le condizioni di liceità previste per il coltivatore della canapa (la pianta deve rientrare in una delle varietà ammesse; la percentuale di THC non deve essere superiore allo 0,2%; i prodotti devono essere destinati a una delle destinazioni di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016). Per l'effetto, in difetto di tali condizioni, spiega la sentenza 7649/2019 della Cassazione , può configurarsi nei suoi confronti, dal punto di vista oggettivo, il reato di cui all'articolo 73, comma 4, del Dpr n. 309 del 1990, ferma restando l'indagine in ordine all'elemento soggettivo del reato, ove la percentuale di THC rinvenuta nei prodotti superi la soglia dello 0,2% e risulti tale da provocare un effetto stupefacente o psicotropo. Da queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso avverso il provvedimento del tribunale di reiezione dell'istanza di riesame proposta nei confronti del sequestro probatorio avente a oggetto n. 94 confezioni di derivati della canapa presentate come «prodotto tecnico da collezione, ornamento o profumo d'ambiente», non rientrante in alcuna delle ipotesi specificate nell'articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016; sequestro eseguito quindi correttamente al fine di effettuare le analisi chimiche tossicologiche, in presenza del
fumus del reato di cui all'articolo 73, comma 4, del Dpr n. 309 del 1990.
La legge 2 dicembre 2016 n. 242 - Come è noto, la legge 2 dicembre 2016 n. 242, contenente disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa ha indotto notevoli questioni interpretative sulla liceità penale o no del commercio della cannabis light.
Secondo un orientamento interpretativo, infatti, proprio alla luce della disciplina introdotta dalla legge n. 242 del 2016, che ha reso lecita la coltivazione della cannabis contenente THC in misura comunque non superiore allo 0,6%, dovrebbe ritenersi consentita la commercializzazione dei prodotti da essa ricavati, comprese le infiorescenze, per fini connessi all'uso che l'acquirente riterrà di farne e che potrebbero riguardare l'alimentazione (infusi, tè, birre), la realizzazione di prodotti cosmetici, ma anche il "fumo": ciò in ossequio al principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti intrinseche caratteristiche di illiceità deve, in assenza di specifici divieti, ritenersi consentita nell'ambito del generale potere della persona di agire per il soddisfacimento del proprio interesse (sezione VI, 29 novembre 2018, Castignani).
Tale orientamento prende consapevolmente le distanze da altro, più rigoroso, secondo cui, invece, qualsiasi utilizzo diverso da quelli esplicitamente consentiti dall'articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016 (quindi, proprio l'assunzione tramite fumo) dovrebbe farsi rientrare nell'ambito di operatività della disciplina sanzionatoria del Dpr n. 309 del 309 del 1990: per l'effetto, le infiorescenze della canapa potrebbero essere legittimante commercializzate per essere destinate – ad esempio- all'attività di florovivaismo o comunque a una delle attività indicate nel citato articolo 2, comma 2, ma non sarebbe certo consentita una vendita per l'assunzione diretta (uso umano tramite fumo), con la conseguenza che una tale condotta sarebbe penalmente sanzionabile ex articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, ove si accerti la presenza di un effetto stupefacente apprezzabile (cfr., tra le altre, sezione VI, 27 novembre 2018, Ricci).
Una puntuale ricostruzione della posizione del commerciante - La sentenza in esame si inserisce nell'ambito di quest'ultimo orientamento, ma è soprattutto pregevole perché, in parte motiva, fornisce una puntuale ricostruzione della posizione del commerciante. Il commerciante, si sostiene, va esente da responsabilità penale ricorrendo le condizioni di liceità previste per il coltivatore (la pianta deve rientrare in una delle varietà ammesse; la percentuale di THC non deve essere superiore allo 0,2%; i prodotti devono essere destinati a una delle destinazioni di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016). Mentre, in difetto di tali condizioni, può configurarsi nei suoi confronti, dal punto di vista oggettivo, il reato di cui all'articolo 73, comma 4, del Dpr n. 309 del 1990, ferma restando l'indagine in ordine all'elemento soggettivo del reato, ove la percentuale di THC rinvenuta nei prodotti superi la soglia dello 0,2% e risulti tale da provocare un effetto stupefacente o psicotropo (la previsione espressa di esonero di responsabilità nel caso del superamento dello 0,2% presente nelle piante riguarda, infatti, solamente il coltivatore).
Come detto in premesso, la questione del trattamento da riservare al commerciante dei prodotti ricavati dalla cannabis light è controversa e sarà decisa dalle sezioni Unite, cui è stata rimessa dalla sezione IV, con ordinanza 8 febbraio 2019, Castignani, ancora non depositata. In proposito, come risulta evidente dalla ricostruzione operata dalla sentenza in esame, il punto più delicato su cui le sezioni Unite dovranno fare chiarezza è quello dell'elemento soggettivo del reato di cui all'articolo 73, comma 4, del Dpr n. 309 del 1990, in ipotesi contestabile al commerciante, che potrà ritenersi dimostrato allorquando il commerciante sappia, per le modalità della vendita e per le palesi caratteristiche del prodotto, che questo non risulta ricompreso tra quelli aventi una delle destinazioni lecite di cui all'articolo 2, comma 2, della legge n. 242 del 2016 (ciò che nella specie risultava evidente perché le confezioni riportavano l'indicazione che si trattava di «prodotto tecnico da collezione, ornamento o profumo d'ambiente», non rientrante in alcuna delle ipotesi di cui al citato articolo 2, comma 2 della legge n. 242 del 2016).
Cassazione – Sezione III penale – Sentenza 20 febbraio 2019 n. 7649