Se il fatto posto a base del licenziamento economico è manifestatamente insussistente, il lavoratore deve essere reintegrato
Con la sentenza n. 59 del 1 aprile 2021 la Corte Costituzionale si è pronunciata in ordine al settimo comma dell'art 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Con la sentenza n. 59 del 1 aprile 2021 la Corte Costituzionale si è pronunciata in ordine al settimo comma dell'art 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Questo il dispositivo della Corte: ""dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge 28 giugno 2012, n. 92 …, nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, "può altresì applicare" – invece che "applica altresì – la disciplina di cui al medesimo art. 18 quarto comma.".
Tale dichiarazione di incostituzionalità significa che il giudice, quando dovesse accertare in un giudizio la manifesta infondatezza del fatto posto a base del licenziamento per motivi economici, "deve" applicare la stessa tutela del comma 4 dello stesso articolo 18 e cioè la tutela reintegratoria piena prevista quando è insussistente il fatto posto a base di un licenziamento disciplinare. In altre parole non è più discrezionale la scelta del Giudice tra reintegrazione e tutela indennitaria.
Sul punto è necessaria una immediata precisazione. Tale sentenza si applica alle aziende con più di 15 dipendenti all'interno dello stesso Comune o più di 60 a livello nazionale e ai rapporti a tempo indeterminato instaurati prima del 7 marzo 2015. Successivamente a questa data si applica la disciplina introdotta dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, il c.d. jobs act), che si caratterizza per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele che non è stato oggetto di tale pronuncia.
Fatta questa breve ma necessaria premessa, il solco appare ben tracciato dalla Corte e il percorso applicato è chiaro e semplice.
Proviamo a seguirne in via di estrema sintesi la trama anticipando il principio di diritto affermato.
I dubbi di costituzionalità si concentrano sull'art. 18, settimo comma, secondo periodo, dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla c.d. Legge Fornero.
Con tale riforma, afferma il Giudice delle leggi, "Il legislatore ha inteso ridistribuire «in modo più equo le tutele dell'impiego» anche mediante l'adeguamento della disciplina dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di riferimento» e la previsione «di un procedimento giudiziario specifico per accelerare la definizione delle relative controversie".
La Corte inizia la propria analisi ricordando dapprima che la tutela reintegratoria piena, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati dall'azienda, si applica tuttora nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo per causa di matrimonio o di maternità o di paternità, retto da motivo illecito determinante o dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. In tali casi il giudice reintegra il lavoratore e gli riconosce un'indennità risarcitoria pari all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione con un minimo di cinque mensilità.
La Corte poi prosegue ricordando che allo schema iniziale dell'art. 18 (ante Riforma Fornero) che prevedeva una tutela reintegratoria piena per tutte le ipotesi di licenziamento (nullità, annullabilità e inefficacia), il legislatore del 2012 ha sostituito più regimi di tutela: (i) una tutela reintegratoria piena (quella vista sopra per i licenziamenti nulli e quella per i licenziamenti disciplinari quando il fatto posto a base del licenziamento è insussistente);
(ii) una tutela reintegratoria attenuata (quella prevista per i licenziamenti economici dove vi è manifesta insussistenza del fatto e che prevederebbe la reintegrazione solo ipotetica e a discrezione del giudice);
(iii) una tutela indennitaria (per i licenziamenti economici nonché per quelli disciplinari dove il fatto sussiste ma non è considerato idoneo a risolvere il rapporto), fissata in forma piena e in forma ridotta.
Nei licenziamenti economici, la tutela reintegratoria attenuata poteva essere applicata, come abbiamo visto, nei casi di "manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo". Tale reintegra però non era obbligatoria, ma poteva essere disposta a discrezione del giudice.
Secondo la Corte, questa discrezionalità nel "concedere o negare la reintegrazione, contrasta con l'art. 3 Cost.."
Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivelerebbe una disarmonia interna al sistema e vìolerebbe il principio di eguaglianza.
La Corte infatti afferma che "Per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha previsto la reintegrazione del lavoratore, quando si accerti in giudizio l'insussistenza del fatto posto a base del recesso del datore di lavoro. Per i licenziamenti economici, l'insussistenza del fatto può condurre alla reintegrazione ove sia manifesta. L'insussistenza del fatto, pur diversamente graduata, assurge dunque a elemento qualificante per il riconoscimento del più incisivo fra i rimedi posti a tutela del lavoratore.
Secondo la valutazione discrezionale del legislatore, l'insussistenza del fatto – sia che attenga a una condotta di rilievo disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una decisione organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere manifesto – rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea, che è quella più energica della ricostituzione del rapporto di lavoro.
In un sistema che, per consapevole scelta del legislatore, annette rilievo al presupposto comune dell'insussistenza del fatto e a questo presupposto collega l'applicazione della tutela reintegratoria, si rivela disarmonico e lesivo del principio di eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione per i soli licenziamenti economici, a fronte di una inconsistenza manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di un vizio di più accentuata gravità rispetto all'insussistenza pura e semplice del fatto.
Le peculiarità delle fattispecie di licenziamento, che evocano, nella giusta causa e nel giustificato motivo soggettivo, la violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel giustificato motivo oggettivo, scelte tecniche e organizzative dell'imprenditore, non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l'insussistenza del fatto meritevole del rimedio della reintegrazione e che, per il licenziamento economico, si richieda finanche il più pregnante presupposto dell'insussistenza manifesta."
Gli elementi comuni alle due fattispecie (licenziamento disciplinare e licenziamento economico) quindi non giustificano, a detta della Corte, la configurazione di rimedi differenti anche perché, afferma il giudice delle leggi, il legislatore non solo presuppone una evidenza conclamata del vizio (di non sempre facile individuazione) ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire all'interprete un chiaro criterio applicativo.
"La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse – quella reintegratoria, pur nella forma attenuata, e quella meramente indennitaria – è così rimessa a una valutazione del giudice disancorata da precisi punti di riferimento."
Neppure il richiamo alla eccessiva onerosità, secondo la sentenza, pone rimedio all'indeterminatezza della fattispecie.
Il concetto di eccessiva onerosità infatti, utile a tracciare un confine tra due forme di tutela risarcitoria sostanzialmente equivalenti (risarcimento in forma specifica o per equivalente), non può essere utilizzato per grandezze economiche non comparabili. Il risarcimento non potrà mai essere equiparato alla reintegrazione.
"In un sistema equilibrato di tutele, la discrezionalità del giudice riveste un ruolo cruciale, come questa Corte ha riconosciuto di recente nel censurare l'automatismo che governava la determinazione dell'indennità risarcitoria per i licenziamenti viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del 2018) o formale (sentenza n. 150 del 2020), dapprima commisurata alla sola anzianità di servizio. Al giudice è stato restituito un essenziale potere di valutazione delle particolarità del caso concreto, in base a puntuali e molteplici criteri desumibili dall'ordinamento, frutto di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata."
La Corte poi conclude riconoscendo che "ben può il legislatore delimitare l'àmbito applicativo della reintegrazione."
"Nondimeno, un criterio distintivo, che fa leva su una mutevole valutazione casistica e su un dato privo di ogni ancoraggio con l'illecito che si deve sanzionare, non si fonda su elementi oggettivi o razionalmente giustificabili e amplifica le incertezze del sistema."
In conclusione la Corte Costituzionale affronta, per sgretolarlo e metterne in evidenza i lati critici, quel principio che la materia economica ha definito come "ambiguità costruttiva".
L'ambiguità dei criteri di intervento sarebbe costruttiva per la stabilità del sistema in quanto, la poca chiarezza della norma (l'ambiguità appunto), renderebbe incerti e più prudenti gli operatori. Il tutto, secondo alcuni, a beneficio della stabilità del sistema. Nulla di più sbagliato: solo la certezza della norma rende stabile il sistema.
L'affidarsi in misura sempre più crescente, nel corso degli ultimi anni, alla normazione secondaria e all'autoregolamentazione, non ha certo favorito la chiarezza e certezza della regola. Anzi, ha favorito in maniera crescente quel conflitto di interessi che, pur nella diversità di significati, si fonda sul forte squilibrio che spesso si verifica, all'interno di un rapporto giuridico, tra i due attori. Tale conflitto si fonda, in modo elementare, sul prevalere dell'interesse di una parte sull'altra. Ogni contratto crea un conflitto. La conseguenza più evidente è la sopraffazione che si manifesta quando un contraente agisce da una posizione di supremazia rispetto all'altro. Tale supremazia può essere determinata sostanzialmente da due diversi fattori: la forza economica e l'asimmetria informativa.
Al fine di ridurre tale situazione di squilibrio, sarebbe opportuno avere regole certe e coerenti.
L'approccio del legislatore in ordine alle proprie tecniche legislative può essere sintetizzato in due criteri: un c.d. rule based approach e un c.d. conceptual approach.
Il primo si basa su una indicazione tassativa delle situazioni e delle relazioni da regolamentare con il dato normativo. Tale impostazione ha indiscutibili vantaggi per quanto riguarda l'oggettività e la semplicità di applicazione. Di contro, è evidente la rigidità e la difficoltà di prevedere a priori tutte le possibili situazioni da regolamentare.
Il secondo criterio prevede l'enunciazione di uno o più criteri di carattere generale, privi di qualsivoglia automatismo, che dovrebbero essere impiegati dall'interprete per regolamentare le situazioni.
Con questa sentenza la Corte ha seguito il primo percorso mettendo un punto fermo. Si potrà non essere d'accordo ma, alla luce del dato normativo e dei principi di carattere generale, questo costituisce almeno un solco chiaro entro cui muoversi.
*a cura di Giampaolo Furlan, Partner dello Studio Galbiati Sacchi e Associati
Danno al lavoratore in Cig lasciato a lungo inattivo
di Giampaolo Piagnerelli
L’evoluzione della disciplina sul licenziamento per giusta causa
di Paolo Patrizio