Amministrativo

Serrate fasciste, ai perseguitati razziali spettano i "ristori" contributivi

Il Consiglio di Stato ha chiarito che la violenza persecutoria non deve necessariamente consistere nell'estrinsecazione della forza fisica o materiale idonea a cagionare pregiudizi fisici

di Pietro Alessio Palumbo

La vigente disciplina sulle provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti, dispone che ai fini del conseguimento delle prestazioni inerenti all'assicurazione contributiva obbligatoria sono considerati utili i periodi scoperti da contribuzione a partire dal primo atto persecutorio subito, fino al 25 aprile 1945. È a carico dello Stato dunque l'importo dei relativi contributi figurativi. Segnatamente sono considerati "atti persecutori" che costituiscono titolo per il riconoscimento della provvidenza economica in questione, gli atti di violenza o sevizie subiti in Italia o all'estero ad opera di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista.
Ebbene con la recente sentenza n.811 depositata il 27 gennaio 2021 (esattamente nel "Giorno della Memoria") il Consiglio di Stato ha chiarito che la violenza persecutoria in questione non deve necessariamente consistere nell'estrinsecazione della forza fisica o materiale idonea a cagionare pregiudizi fisici (qual è la sevizia, ad esempio), ben potendo consistere in ogni forma di costrizione o di condizionamento, anche "morale", ovvero di intimidazione, idonea a impedire o restringere la libera esplicazione della personalità dell'individuo come singolo o all'interno delle formazioni sociali; è compreso quindi il libero svolgimento dell'attività lavorativa. Su quest'onda il Giudice amministrativo di Palazzo Spada ha pertanto deciso che i benefici previsti dalla legge devono essere riconosciuti anche ad una fioraia cittadina italiana appartenente a razza ebrea (recte: alla figlia erede), titolare di una piccola licenza ambulante in periodo fascista, e costretta ad interrompere la propria attività lavorativa a seguito dell'emanazione di una circolare del ministero dell'interno, pubblicata dopo l'entrata in vigore delle leggi razziali del 1938, recante il divieto di licenza di commercio ai cittadini di "razza" ebraica.

Le leggi antiebraiche e la "regolamentazione" fascista dei mestieri
In seguito alle leggi antiebraiche promulgate nel periodo tra il 1938 e il 1943, fu inibito agli ebrei lo svolgimento di una serie cospicua di professioni, di mestieri, di lavori e di attività. Ciò avvenne sia tramite atti aventi forza di legge, sia attraverso ordinanze e provvedimenti dell'Autorità amministrativa. La "regolamentazione" (se così si può dire) dei mestieri si ebbe in massima parte, invece, con le circolari ministeriali attraverso un sistema gerarchico nel quale non si esitava a eseguire i cosiddetti "ordini superiori". E – si badi - il principio di legalità era inteso in un significato ben diverso da quello che ha poi caratterizzato il nostro Stato repubblicano.

Gli atti di sopraffazione considerati dalla disciplina "riparatoria "
Gli "atti di violenza" presi in considerazione dalla normativa devono essere identificati in tutti quelli che abbiano concretamente determinato la lesione dei diritti della persona umana e i valori costituzionalmente protetti. Accanto alla violenza fisica, dunque, quale presupposto e fondamento dei benefici di cui trattasi, si affianca la "sopraffazione" morale. A tale riguardo va evidenziato che la normativa, nell'uso del plurale ("atti" di violenza) non vuole subordinare la concessione delle provvidenze in questione al reiterarsi della violenza, bensì vuole – a ben vedere - rapportare i ristori ad una più vasta tipologia di azioni violente. Una "gamma" che muove, appunto, dalla violenza fisica a quella morale. Per altro verso occorre che gli atti di violenza abbiano il proprio "seme" nell'intento persecutorio, determinato dalla condizione razziale del soggetto leso. E la motivazione razziale può presumersi laddove la violenza abbia colpito un soggetto appartenente a una precisa comunità "discriminata". In altre parole la ratio della disciplina in parola è quella di apprestare misure "riparatorie" e per ciò stesso indennitarie, in favore dei soggetti che, in vario modo e a vario titolo, hanno subito pregiudizi dalle leggi e dai provvedimenti emanati durante il regime fascista.

La (speciale) violenza dei funzionari dello Stato
Sul piano soggettivo la disciplina introduce un elemento "qualificatorio" particolarmente rilevante, poiché la violenza o l'intimidazione considerate provengono da persone alle "dipendenze" dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista. Ne consegue che la connotazione violenta delle azioni poste in essere dai soggetti individuati dalla norma va ravvisata non soltanto nelle modalità della condotta che può assumere le più svariate "colorazioni", dalla mera coercizione alla brutalità, fino alla crudeltà vera e propria, ma anche nella attitudine di quello Stato a "schiacciare" i diritti basilari e quindi inviolabili della persona umana. Di talché l'intento risarcitorio della normativa in esame coinvolge il valore della persona nella sua "unitarietà" e in tutte le sue molteplici "proiezioni". Invero limitare la funzione solidaristica e risarcitoria ai soli fatti lesivi dell'integrità fisica, significherebbe (arbitrariamente) "dimenticare" tutti gli altri valori umani, quali la dignità, l'onore, l'identità, che formano un quadro armonico, unico e inscindibile; e che danno contenuto e sostanza ai diritti universali. Compreso quello al lavoro.

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