Smart working – un po' di storia 25 anni dopo
Il perno fondamentale della normativa è che la modalità di esecuzione del lavoro in teleworking è l'accordo tra le parti, per tali intendendosi l'azienda e il lavoratore, ovvero le organizzazioni sindacali.
Mi è capitato sottomano un articolo da me scritto quando l'espressione smartworking non era stata ancora coniata e si parlava soltanto di "telelavoro" (Il telelavoro: normativa vigente e spunti de jure condendo, Iter legis n.5/1995 pag.97). Da allora sono passati più di 25 anni, ma la sua rilettura consente spunti di riflessione utili per meglio comprendere lo scenario giuridico e sociale contemporaneo.
Innanzitutto è curioso notare come l'espressione smartworking sia usata nella terminologia italiana più di quanto lo sia nei paesi di lingua inglese, anche se nella recente legislazione italiana (a partire dalla legge n. 81/2017) si è saggiamente scelto di chiamarlo "lavoro agile", affrancandosi così da uno pseudoanglicismo che non corrisponde a una preciso istituto anglosassone.
Nelle opere di Jack Nilles, lo scienziato americano che per primo ha elaborato il concetto, il termine utilizzato era infatti la cirlocuzione "working remotely", per poi passare a "telecommuting".
Nato come uno scienziato aerospaziale (è stato a lungo consulente della NASA ai tempi di Kennedy e Johnson) Nilles iniziò ad interessarsi del problema del lavoro da remoto negli anni 70, partendo dalla considerazione che il traffico congestionato di Los Angeles avrebbe tratto beneficio se molti impiegati avessero iniziato a lavorare nelle loro case o in uffici separati dall'ufficio centrale, disseminati ("dispersi", diceva Nilles) in aree vicino alle abitazioni degli impiegati. I primi vantaggi di questa dislocazione periferica furono visti in una maggiore efficienza degli impiegati (che evitavano lo stress di lunghi viaggi per raggiungere la sede centrale del lavoro), un risparmio di costi per la riduzione degli spazi occupati nei costosi centri direzionali, e un generale miglioramento dell'ecosistema dovuto alla riduzione delle emissioni nocive del traffico automobilistico e una riduzione dell'uso del petrolio (si era all'epoca in piena crisi petrolifera).
Il primo esperimento pratico avvenne all'interno della USC (University of California) nel 1972, quando per 9 mesi un gruppo di ricercatori adattò i concetti di Nilles a una compagnia assicurativa: tecnicamente fu un successo e un considerevole risparmio fu conseguito nel periodo, ma le resistenze alla nuova metodologia furono molto forti, tanto che lo smartworking (continueremo per comodità a usare questa espressione, anche se non frequente nella terminologia inglese) in USA, prima della pandemia COVID, non superava il 3% della popolazione lavorativa.
Nilles, nel suo libro The Telecommunications-Transportation Tradeoff, (1976), un estratto del quale si può rintracciare nel sito della Lawrence University (Wisconsin), pose già le più importanti questioni sul "teleworking", termine da lui coniato all'epoca al posto di "telecommuting" (e poi tradotto nel "telelavoro" di cui anche al mio citato articolo) e che alludeva semplicemente al lavoro a distanza (in uffici satelliti oppure da casa), ipotizzando una radicale trasformazione del lavoro, con la scomparsa degli uffici "centrali" per tutta una serie di categorie di industrie e di lavoratori.
Una visione che, onestamente, il sottoscritto non aveva così chiaramente intravisto quando scriveva del "telelavoro" e, in maniera che ora appare un po' grossolana, si affannava a traccia-re la distinzione tra un istituto che appariva di nuova concezione e il lavoro a domicilio, che aveva invece una precisa configurazione giuridica (Legge 18.12.1973 n. 877 e successive modifi-cazioni) e di cui il telelavoro poteva apparire, all'epoca, come una species.
Il lavoro a domicilio però non comprendeva l'ipotesi del lavoro itinerante (per esempio a mezzo di note book, un og-getto che nacque successivamente, nel 1975, con il portatile IBM 5100) ed era stato studiato soprattutto per il lavoro manuale, a cui si applicava la retribuzione a cottimo e tutta una serie di limitazioni non concepibili per il lavoro intellettuale.
L'ipotesi coperta dalla legge sul lavoro a domicilio, assai lontana dall'attuale smartworking, era solo quella di un telelavoro con collegamento off-line con l'imprenditore (ossia a mezzo termina-le collegato con un computer aziendale), che si materializzasse in un "prodotto", ossia un bene o servizio quantificabile e fungibile, mentre un telelavoro on-line ( e quindi svolto nel domicilio del lavoratore direttamente alle dipendenze dell'imprenditore e sotto il suo controllo) si qualifi-cava come lavoro subordinato in senso stretto. Si parlava infine di "telelavoro autonomo" nel caso in cui il telelavoratore fosse collegato off-line o on-line con l'azienda committente, compisse la sua opera in sostanziale autonomia da quest'ultima pur eventualmente in presenza di inte-rattività tecnica tra i rispettivi mezzi di comunicazione.
Qualche anno dopo la pubblicazione dell'articolo citato, che auspicava, de iure condendo, una definizione legislativa del "telelavoro", l'istituto venne in parte regolamentato dall'accordo in-terconfederale del 9 giugno 2004 (Filcams CGIL, 2004), che lo definiva come una "una forma di organizzazione e/o di svolgimento del lavoro che si avvale delle tecnologie dell'informazione nell'ambito di un contratto o di un rapporto di lavoro, in cui l'attività lavorativa, che potrebbe anche essere svolta nei locali dell'impresa, viene regolarmente svolta al di fuori dei locali della stessa".
Successivamente (2014) nel Regno Unito fu emessa la Flexible Working Regulation, che sanci-va in termini generali il diritto del lavoratore ad una maggiore flessibilità, pur limitandone l'applicazione ai dipendenti con un livello di anzianità oltre i 6 mesi, mentre la risoluzione del Parlamento Europeo del 13/9/2016 (principio generale n. 48) dava una definizione ampia di la-voro agile, corredata dalle seguenti indicazioni generali:
"Il Parlamento sottolinea il potenziale offerto dal lavoro agile ai fini di un migliore equilibrio tra vi-ta privata e vita professionale, in particolare per i genitori che si reinseriscono o si immettono nel mercato del lavoro dopo il congedo di maternità o parentale; si oppone tuttavia alla transizione da una cultura della presenza fisica a una cultura della disponibilità permanente; invita la Commissio-ne, gli Stati membri e le parti sociali, in sede di elaborazione delle politiche in materia di lavoro agile, a garantire che esse non impongano un onere supplementare ai lavoratori, bensì rafforzino un sano equilibrio tra vita privata e vita professionale e aumentino il benessere dei lavoratori; sottolinea la ne-cessità di concentrarsi sul conseguimento di obiettivi occupazionali al fine di scongiurare l'abuso di queste nuove forme di lavoro; invita gli Stati membri a promuovere il potenziale offerto da tecnologie quali i dati digitali, internet ad alta velocità, la tecnologia audio e video per l'organizzazione del (te-le)lavoro agile".
E' sull'onda di tale normativa che si perviene in Italia alla citata legge n. 81/2017, che premet-te che il suo scopo è di "favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordina-to" e definisce il lavoro agile come una "modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell'attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all'interno di locali aziendali e in parte all'esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell'orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contratta-zione collettiva".
Ai lavoratori agili viene garantita la parità di trattamento - economico e normativo rispetto ai loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinarie ed è prevista la loro tutela in caso di infortuni e malattie professionali, secondo le modalità illustrate dall'INAIL nella Circo-lare n. 48/2017.
Il perno fondamentale della normativa è che la modalità di esecuzione del lavoro in teleworking è l'accordo tra le parti, per tali intendendosi l'azienda e il lavoratore, ovvero le organizzazioni sindacali.
Questo principio è stato in parte superato da un'importante sentenza di Cassazione e dalle mo-difiche dell'istituto causate dalla pandemia Covid.
La sentenza è la n. 27913 del 4.12.2020, che ha offerto una lettura pregnante dell'art. 2087 del Codice Civile, secondo il quale "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Nel caso di specie si trattava il caso di un dipendente che aveva agito contro il datore di lavoro chiedendo i danni per aver subito pratiche vessatorie ("mobbing") da parte di colleghi e lamentava che il datore non aveva preso tutte le misure necessarie per impedire il verificarsi del danno. La Corte, sulla base dell'art. 2087 citato (ma anche dell'art. 32 Cost.) , sancisce un obbligo generale del datore di predisporre tutte le misure a tutela della salute fisica ed emotiva del dipendente e, sebbene non citi espressamente il lavoro agile, si può arguire che se questa è una modalità idonea ad per evitare le condotte vessatorie, sebbene le stesse non siano attribuibili direttamente al datore, ma poste in essere da suoi dipendenti nell'ambiente di lavoro, il datore ha l'obbligo di adottarle, quando risulta la probabilità di concretizzazione del conseguente rischio, e purché, ovviamene, le stesse siano compatibili con il livello e la tipologia di mansioni svolte dal lavoratore.
L'avvento della pandemia ha ora posto i riflettori sullo smartworking, da un lato concretizzando la visione di Nilles circa una pari o addirittura migliore produttività del lavoro in smartworking, dall'altro, sul piano giuridico, rendendo la pratica spesso obbligatoria, anche sulla scorta della citata sentenza di Cassazione. E' infatti evidente che quando una data prestazione di lavoro non possa essere svolta in sicurezza nello spazio fisico aziendale e possa invece essere svolta con le modalità del lavoro agile, il datore non potrà sospendere la prestazione, ma dovrà consentire la prestazione della stessa in tale modalità.
E non solo il datore sarà responsabile per il risar-cimento del danno se il lavoratore, eventualmente obbligato a svolgere la sua prestazione in se-de senza che siano adottati i protocolli di sicurezza anti-Covid, resti contagiato, ma sarà anche obbligato ad accettare la domanda del lavoratore di effettuare la sua prestazione in smartwor-king quando tale modalità sia possibile nel contesto delle esigenze dell'azienda.
Nel solco di questi principi vanno ricordati gli interventi governativi, prima oggetto di "raccomandazioni" del Governo e poi trasfusi in normativa vera e propria, tra cui ricordiamo ad esempio i seguenti passi, disposti per il lavoro privato:
(a) il DPCM 1.3.2020 (art. 4.1.a) consente la possibilità di adottare la modalità di lavoro agile, secondo la legge n. 81/2017, a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti;
(b) L'art. 26 del DL 17.3.2020, n. 18, come modificato dalla L. 30.12.2020 n. 178, prevede che i lavoratori dipendenti, pubblici e privati, in possesso di certificazione attestante una condizione di rischio derivante da immunodepressione o da esiti da patologie oncologiche o dallo svolgimento di relative terapie salvavita (c.d. lavoratori fragili) nonché i lavoratori in possesso del riconoscimento di disabilità con connotazione di gravità ai sensi dell'art. 3, comma 3, L. n. 104/1992 svolgono di norma la prestazione lavorativa in modalità agile, anche attraverso l'adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti, o lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale anche da remoto;
(c) In base all'art. 21 bis del DL 14.8.2020, n. 104 come modificato dal DL 28.10.2020, n. 137 (Decreto Ristori), i genitori lavoratori dipendenti, il cui figlio convivente minore di anni sedici è stato sottoposto a quarantena o al quale è stata sospesa la didattica in presenza, hanno diritto a svolgere la prestazione la-vorativa in modalità agile utilizzando la procedura semplificata di comunicazio-ne;
d) Il recente DPCM 14.1.2021torna tecnica della "raccomandazione" delle modalità di lavoro agile per tutte le attività (anche professionali) che possono essere svolte al proprio domicilio o in remoto.
Per finire, se è stato talvolta notato come lo smartworking sia oggi un termine assai più pregnante del vecchio "telelavoro" e riassuma ormai un nuovo approccio dell'organizzazione aziendale e una nuova filosofia nei rapporti tra datore di lavoro e lavoratori, con la pandemia esso ha perso in parte quella caratteristica di "lavoro mobile" che ne facevano una evoluzione del telelavoro: e così, chiudendo il cerchio di questa ricostruzione, l'imperativo del "restate a casa" lo fa riavvicinare a quel "lavoro a domicilio", riallacciandosi al quale, con l'articolo del 1995, tracciavamo un primo profilo dell'istituto.
*a cura dell'avv. Gianfranco Di Garbo