Il CommentoSocietà

Società semplice, liquidazione della quota e derogabilità delle previsioni ex art. 2289 c.c.

Rassegna di giurisprudenza

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di Alessandro Buroni*

Nella società semplice e nelle società personali rette dalle medesime norme, ivi incluse le società di fatto (Cass. civ., 21/08/2013, n. 19321), in tutti i casi di interruzione parziale del rapporto sociale a seguito di decesso, recesso o esclusione del socio, questo o i suoi eredi hanno diritto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota. riferita alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento ex art. 2289, c.1 e c.2 c.c. Da tale momento decorre il termine semestrale, salvo il termine trimestrale previsto a favore del socio escluso ai sensi dell’art. 2270 c.c., per il pagamento dell’obbligazione a favore del socio fuoriuscito ovvero dei suoi eredi, comprensivo degli utili o delle perdite derivanti da eventuali operazioni in corso ex art. 2289, c.3 e c.4 c.c.

Occorre preliminarmente distinguere l’istituto de quo, dal procedimento preposto alla determinazione della quota di liquidazione conseguente allo scioglimento dell’ente collettivo. Quest’ultimo finalizzato all’eventuale riparto del residuo attivo tra i soci, a seguito dell’estinzione delle passività emergenti dal bilancio finale di liquidazione. In particolare in caso di scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio, perfezionatosi prima del verificarsi di una causa di scioglimento della società, al socio uscente spetta la liquidazione della quota ex art. 2289 c.c., e non la quota di liquidazione risultante all’esito del riparto fra tutti i soci (Cass. civ., 27/04/2011, n. 9397).

L’ammontare del credito del socio uscente, postula l’accertamento dell’effettiva consistenza economica della società, salvo il caso in cui lo statuto preveda un diverso criterio di calcolo. Il tenore letterale dell’art. 2289, c.2, c.c., esclude la possibilità di determinare il valore della partecipazione facendo esclusivo riferimento al mero valore contabile risultante dall’ultimo bilancio sociale. Deve escludersi altresì l’ammissibilità della pedissequa adozione dei principi e dei criteri dettati per la redazione del bilancio di esercizio disciplinati dall’art. 2423 e ss. c.c. (ex plurimis Cass. civ., 30/10/2019, n. 27768; Cass. civ., 18/03/2015, n. 5449; App. Genova, 17 aprile 2001).

L’onere della prova

L’onere della prova circa l’effettivo ammontare della quota del socio uscente incombe sugli amministratori e di riflesso sui soci rimanenti nella compagine sociale. L’amministratore è tenuto ai sensi dell’art. 2261 c.c. a rendere il conto della gestione, consentendo di redigere un bilancio straordinario in cui i valori degli elementi attivi e passivi suscettibili di valutazione, non vengano considerati secondo il loro valore di iscrizione a bilancio, bensì secondo la valutazione corrente di mercato attualizzata alla data di fuoriuscita del socio (ex plurimis App. Milano, 29 novembre 2022, n. 3794; App. Potenza, 6 marzo 2023, n. 108; Cass. civ., 08/10/2018, n. 24769).

In base al consolidato principio di vicinanza della prova, l’amministratore è il solo soggetto deputato alla produzione delle scritture contabili della società, volte dimostrare quale fosse la situazione patrimoniale della stessa al momento di morte, esclusione o recesso del socio. Il mancato o parziale assolvimento di tale onere, con allegazione lacunosa o inattendibile di documenti contabili, consente al Giudice di merito di trarre argomenti di prova da tale condotta ex art. 116 c.p.c.. Per sopperire alla carenza, egli ha facoltà di disporre una consulenza tecnica d’ufficio per definire il valore della quota, disattendendo liberamente le obiezioni formulate dai consulenti di parte (Trib. Catanzaro, 05/09/2023, n. 1415; Trib. Reggio Calabria del 30 ottobre 2020, n. 980; Cass. civ., 19/02/2020, n. 4260),

Il calcolo

La giurisprudenza ha mutuato dalla dottrina economica-aziendale differenti metodologie, finalizzate al calcolo dell’ammontare di liquidazione della quota sociale (ex plurimis Cass. civ., 17/09/2019, n. 23096).

L’applicazione di tecniche diversificate consente di dare rilievo a differenti aspetti del potenziale aziendale offrendo diverse prospettive di analisi. Tra questi i modelli di stima più utilizzati nella prassi professionale ed avvallati dalla giurisprudenza sono il metodo finanziario, reddituale, patrimoniale semplice e misto patrimoniale-reddituale con stima autonoma dell’avviamento.

In sintesi e senza pretese di esaustività, il metodo finanziario identifica il valore dell’azienda con la sommatoria dei futuri flussi monetari che la stessa sarà in grado di generare, tale criterio difetta per un alto grado di discrezionalità circa le previsioni relative ai flussi monetari attesi.

Il sistema reddituale, trascurando la componente patrimoniale, assume quale valore aziendale esclusivamente i redditi, opportunamente attualizzati, che l’impresa sarà in grado di generare.

Viceversa, la metodologia patrimoniale semplice, privilegia l’aspetto patrimoniale ed identifica l’azienda con l’ammontare corrente dei singoli beni che la compongono, omettendo le aspettative reddituali.

Secondo il modello misto patrimoniale-reddituale con stima autonoma dell’avviamento, il valore aziendale è determinato dalla sommatoria dei risultati forniti dal metodo patrimoniale e dal metodo reddituale, rilevando altresì il valore dell’avviamento commerciale. Tale procedimento contempera gli aspetti patrimoniali e reddituali dell’azienda, valorizzando entrambi, deve ritenersi il metodo valutativo più attendibile e che per tali ragioni gode di maggior autorevolezza in seno alla giurisprudenza (ex plurimis Trib. Catanzaro, 05/09/2023, n. 1415, cit.; Cass. civ., 17/09/2019, n. 23096).

Secondo la Suprema Corte il concetto di avviamento deve intendersi come capacità di profitto che permette ad un complesso aziendale di raggiungere risultati economici differenti, siano essi minori (c.d. badwill ) o più frequentemente maggiori (c.d. godwill ), rispetto all’impiego dei singoli elementi che la compongono. In ossequio a tale assunto se la società personale appartiene, in proporzione alle rispettive partecipazioni, a tutti i componenti della compagine sociale, nella medesima proporzione ogni suo incremento è imputabile al contributo di ciascun socio (ex plurimis Cass. civ., Sez. 08/10/2018, n. 24769; Cass. civ., Sez. I, Sentenza, 18/03/2015, n. 5449).

La computabilità di tale elemento discende dalla redditività del complesso dei fattori aziendali, ricavato dai risultati economici delle passate gestioni e dalle prudenti previsioni dei futuri rendimenti, opportunamente attualizzati all’istante dello scioglimento del vincolo sociale. La sussistenza dell’avviamento quale componente del patrimonio dell’impresa postula l’accertamento della probabilità di maggiori profitti a beneficio dei soci superstiti, derivante anche, dall’apporto presente o passato conferito dal socio uscente e consolidatosi come parte del patrimonio sociale. Per le ragioni esposte qualora si verifichi lo scioglimento della società e la cessazione dell’attività produttiva verrebbe meno la potenzialità futura di produzione del reddito e conseguentemente l’avviamento. (ex plurimis Cass. civ., 16/01/2009, n. 1036; Cass. civ., 25/03/2003, n. 4354; Cass. civ., 02/08/1995, n. 8470).

Nell’ipotesi in cui la società personale registri perdite di esercizio, il socio uscente rimane vincolato al pagamento della propria quota specularmente al diritto di percezione agli utili (Trib. Bari, 15/10/1988).

L’art. 2289, c. 3 c.c. stabilisce che il controvalore della partecipazione debba essere accresciuto o diminuito, tenendo in debito conto le operazioni in corso al momento della cessazione del rapporto sociale. Secondo la Suprema Corte tale concetto è riconducibile ad utili, perdite e sopravvenienze attive e passive per operazioni che, seppur non definite al momento dello scioglimento del rapporto sociale, traggono origine e discendono da rapporti giuridici ad esso preesistenti (ex plurimis Cass. civ., 08/09/2022, n. 26501).

Un precisazione è necessaria rispetto al rilievo assunto dai beni immobili nel calcolo della quota di liquidazione. Questi nella pratica rappresentano una parte cospicua del patrimonio delle società personali e segnatamente delle società semplici, visto il largo utilizzo del modello societario come strumento di protezione patrimoniale.

In sede di liquidazione del socio uscente, il riconoscimento di una somma di denaro proporzionale al valore della proprietà del bene conferito, secondo i criteri statutari di divisione del patrimonio sociale, postula che il conferimento abbia avuto ad oggetto tale diritto e non il mero godimento del cespite. Per quanto concerne in particolare i beni immobili, il conferimento di un bene in proprietà è subordinato all’espletamento della pubblicità immobiliare a norma dell’art. 2659 c.c., come riformulato con la L. 27 febbraio 1985 n. 52. In mancanza di tali formalità l’immobile non può ritenersi intestato all’impresa personale ed incluso nel patrimonio della stessa, ma conferito a titolo di semplice godimento. Pertanto il socio in sede di liquidazione ex art. 2289 c,c, vanterà il diritto esclusivamente ad una somma di denaro pari all’utilità ricavata dalla società di persone. La restituzione al socio del bene conferito in godimento avverrà soltanto alla scadenza del termine stabilito in sede di conferimento oppure, in caso di mancata previsione, in sede di liquidazione in seguito allo scioglimento della società personale (ex plurimis App. Potenza, 06/03/2023, n. 108, cit.; Cass. civ., 28/01/1993, n. 1027; Cass. civ., 17/11/1984, n. 5853).

Per le medesime ragioni, a seguito dello scioglimento del rapporto, la quota del socio non include il valore dell’immobile di proprietà di altro socio detenuto dalla società personale in comodato, senza specificazione di durata e revocabile ad nutum. Siffatta convenzione rappresenta titolo inidoneo a proiettare nel futuro l’utilità del cespite, allo stesso modo non può tenersi conto del godimento passato del bene poiché privo di valore economicamente apprezzabile (Cass. civ., 21/08/2013, n. 19321).

Nello scioglimento del rapporto del socio d’opera, anche occulto, il computo dell’ammontare della partecipazione poggia sul criterio di ripartizione dei guadagni e delle perdite fissato dall’art. 2263, c.2 c.c. Qualora il contratto sociale non contempli la quota spettante al socio d’opera uscente, questa verrà fissata dal Giudice in via equitativa, facendo fondamentalmente riferimento alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si è verificata l’interruzione del rapporto sociale (Cass. civ., 19/02/2020, n. 4260).

I precetti dell’art. 2289 c.c. rientrano senz’altro nel novero dei diritti patrimoniali, come tali liberamente derogabili dalle parti con una specifica pattuizione inclusa nell’atto costitutivo o in forza di un accordo successivo. Tale tesi è stata accolta dalla giurisprudenza con pronunce datate ma mai contraddette in seguito.

In particolare è stata ritenuta legittima una previsione statutaria che in deroga all’art. 2289, c.1 c.c., abbia previsto che l’obbligazione per il controvalore della quota spettante al socio uscente possa essere adempiuta tramite una datio in solutum, con l’attribuzione in natura di beni sociali (Cass. civ., 28/01/1993, n. 1027, cit.; App. Cagliari, 21/05/1982; Cass. civ,, 16/07/1976, n. 2812). Tale soluzione sarebbe utile a soddisfare il credito del socio uscente che esprima interesse per l’attribuzione di un cespite sociale, evitando contestualmente la corresponsione del controvalore in denaro ed il depauperamento della liquidità della società ed in via sussidiaria dei soci rimasti a far parte della stessa.

La mancata menzione del valore del valore d’avviamento commerciale, seppur elemento economicamente significativo, in sede di trattativa tra le parti per la definizione della partecipazione, è stato interpretato come rinuncia al riconoscimento dello stesso. Nella circostanza la Suprema Corte non ha ritenuto concepibile che, nei documenti consensualmente redatti, non fosse menzionato il diritto all’avviamento e che tale condotta palesasse l’intento delle parti di non prendere in considerazione tale voce, quale controvalore della quota di liquidazione (Cass. civ., 10/07/1993, n. 7595).

La concorde volontà delle parti è stata ritenuta idonea a determinare il valore della quota esclusivamente sulla base dell’ultimo bilancio approvato dai soci rettificando l’art. 2289, c.2 c.c. (App. Milano, 10 marzo 1981).

Le parti possono escludere l’applicazione dell’art. 2289, c. 3 c.c., decidendo di non dare rilievo alle sopravvenienze passive nell’accertamento dell’importo della partecipazione (App. Firenze, 20/06/2019, n. 1515).

Allo stesso modo è stato ritenuto ammissibile una convenzione tra le parti che preveda la corresponsione dell’ammontare in denaro della quota in forma rateale ed in un arco di tempo maggiore o più breve rispetto al rigore del termine semestrale ex art. 2289, c.4 c.c. (Trib. Roma, 27/08/2018, n. 16614).

L’esigibilità della prestazione pecuniaria a favore del socio creditore decorre dallo spirare del termine di sei mesi dallo scioglimento del rapporto ed è soggetto a prescrizione quinquennale a norma dell’art. 2949 c.c., applicabile a tutti i diritti derivanti dal rapporto sociale (ex plurimis Cass. civ., 17/01/2022, n. 1200; Cass. civ., 31/07/2017, n. 18963).

L’obbligazione de qua, avendo ad oggetto, sin dalla sua origine, una somma di denaro, ha natura di debito di valuta, pertanto soggetto al principio nominalistico di cui all’art. 1277 c.c., potendo la svalutazione monetaria assumere rilievo solo in mancanza adempimento entro il termine fissato ex art. 2289, c.4 c.c., con applicabilità dei principi sul risarcimento del danno da mora debendi (ex plurimis Cass. civ., 15/01/2009, n. 816; Trib. Milano, 1 agosto 2016).

Dal punto di vista strettamente processuale la giurisprudenza è concorde nel ritenere il contraddittorio nei confronti della società personale, ivi inclusa la società di fatto, ritualmente instaurato, convenendo direttamente in giudizio la stessa o alternativamente, citando tutti i soci. Tale ultima soluzione postula un giudizio riservato al Giudice di merito, volto alla verifica che l’attore, pur convenendo in giudizio tutti i soci, volesse comunque proporre l’azione nei confronti della società per far valere il proprio credito ex art. 2289 c.c. rispetto ad essa. L’affermata legittimazione passiva della società e l’insussistenza del litisconsorzio necessario non comportano carenza di legittimazione in capo ai soci superstiti. I soci solidalmente ed illimitatamente responsabili rispondono ad ogni modo con il proprio patrimonio personale per il debito afferente alla liquidazione della quota. L’azione nei confronti dei soci è subordinata alla preventiva ed infruttuosa escussione del patrimonio sociale (ex plurimis Trib. Catania, 24/04/2020, n. 1413; Cass. civ., 30/10/2019, n. 27768).

Detto principio trova applicazione anche nell’ipotesi in cui la società personale sia formata da due soli soci. Nella circostanza, l’unico socio rimanente può essere convenuto in giudizio sia in nome della società che in proprio, al fine di accertare la sua responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali (ex plurimis Cass. civ., 31/07/2020, n. 16556).

Per concludere un aspetto rilevante e spesso trascurato è individuabile nella derogabilità delle previsioni dettate dall’art. 2889 c.c., soprattutto nel caso in cui il patrimonio sociale sia ingente. Un preventivo accordo tra i soci in sede di redazione dell’atto costitutivo della società semplice, consentirebbe di precisare i criteri per determinare il valore di liquidazione della quota e le modalità di adempimento del debito nei confronti del socio uscente, evitando potenziali conflitti all’interno della compagine sociale.

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*A cura di Alessandro Buroni, Avvocato, Dottore Commercialista e Revisore Legale, School University Foundation