Civile

Spetta il risarcimento ai familiari del militare deceduto per la malattia contratta in missione

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di Andrea Alberto Moramarco


Il ministero della Difesa è responsabile, ai sensi dell’articolo 2050 del Cc, delle malattie contratte dai militari a seguito della esposizione a fattori di rischio in occasione dello svolgimento di missioni militari in zone di guerra e, pertanto, è tenuto al risarcimento del danno subito dai familiari in conseguenza del decesso del militare provocato dalla malattia. Questo è quanto si afferma nella sentenza 60/2016 del tribunale di Firenze, che ha condannato il Ministero a risarcire moglie e figlia di un Maresciallo paracadutista dell’Arma dei Carabinieri, morto in conseguenza di una patologia neoplastica contratta a seguito di esposizione ad uranio impoverito.


La malattia - Il Maresciallo aveva partecipato a diverse missioni internazionali nel corso anni ’80-’90 (Somalia, Libano, Bosnia Herzegovina e Albania) ed era rientrato in Italia nel 2000, quando era stato ricoverato d’urgenza per una «neoplasia del sigma con metastasi polmonari, epatiche, ossee e peritoneali», a causa della quale moriva nel giro di pochi mesi. In seguito al decesso, i familiari del militare agivano in giudizio nei confronti del Ministero della Difesa chiedendone, ai sensi dell’articolo 2043 o 2050 del Cc, la condanna al risarcimento dei danni subiti iure proprio e iure hereditatis a causa della malattia mortale contratta dal proprio congiunto durante le operazioni militari.


Il contatto con l’uranio impoverito - In particolare, i familiari sostenevano che durante le missioni internazionali in Somalia e Bosnia Herzegovina era stato fatto uso massiccio di armi all’uranio impoverito, senza che ai militari operanti fossero fornite informazioni sui pericoli connessi all’utilizzo di tali armamenti o protezioni idonee ad evitare l’inalazione ed il contatto con le polveri tossiche. E dunque, il Maresciallo durante questo periodo era esposto a numerosi fattori di rischio, quali l’inquinamento, le contaminazioni tossiche causate dalla combustione dei metalli pesanti e dalle esplosione delle munizioni ad uranio impoverito, che avevano causato il diffondersi della malattia neoplastica. In sostanza, il Ministero aveva taciuto su tali rischi, pur essendone a conoscenza, e non aveva adottato tutti gli accorgimenti necessari per assicurare l’incolumità dei militari. Dal canto suo, l’Amministrazione statale si difendeva ritenendo che la causa della morte del Maresciallo non era con certezza riconducibile alla neoplasia e che, ad ogni modo, all’epoca era impossibile prevedere e prevenire gli effetti del contatto con armi ad uranio impoverito perché ne era sconosciuta la pericolosità.


La giurisdizione - Il Tribunale, dopo aver inquadrato la questione giuridica, sconfessa la tesi del Ministero e lo condanna ad un ingente risarcimento in favore di moglie e figlia del Maresciallo. In primo luogo, il giudice chiarisce che per le domande di risarcimento proposte jure hereditatis, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, in quanto «fondata su di una condotta dell’amministrazione che non presenta un nesso meramente occasionale con il rapporto di impiego, ma si pone come diretta conseguenza dell’impegno del militare in quel “teatro operativo” senza fornirgli le necessarie dotazioni di sicurezza»; per le domande di risarcimento proposte jure proprio, invece, sussiste la giurisdizione del giudice ordinario, in quanto trattasi di questioni di diritto soggettivo non direttamente riconducibili alle scelte discrezionali della pubblica amministrazione.

La responsabilità del Ministero - Ciò posto, quanto al nesso di causalità, è vero che nella specie non si può stabilire con certezza se la morte del militare sia dipesa dall’esposizione all’uranio impoverito; ma ciò pare abbastanza probabile considerato i dati statistici di settore e gli studi scientifici che hanno dimostrato un aumento della percentuale di alcune malattie riscontrate dai militari che hanno agito in quelle zone di intervento in quel periodo.
Quanto all’elemento della colpa, il giudice afferma che è improbabile che le Forze armate fossero all’oscuro di una tale situazione di pericolo, «considerato che da diversi anni operavano congiuntamente a forze armate di Paesi, facenti parte del Patto Atlantico, che le impiegavano anche negli scenari bellici di cui era partecipe l’Italia» e che erano a conoscenza della pericolosità dell’esposizione all’uranio impoverito.
A ogni modo, il Tribunale risolve il caso inquadrando la fattispecie nell’alveo dell’articolo 2050 del Cc, in quanto non vi è dubbio che «la partecipazione ad operazioni militari in zone di guerra sia attività da qualificare come pericolosa, sia in sé che per i mezzi adoperati». E nell’ambito delle attività pericolose, è chi organizza l’attività pericolosa che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitale il danno. Il Ministero, invece, non ha mai dato spiegazione del fatto che gli appositi reparti delle Forze armate adibiti alla individuazione di aree contaminate non verificarono la presenza di uranio impoverito, prima che fosse confermato da fonti ufficiali.

Tribunale di Firenze - Sezione II civile - Sentenza 60/2016

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