Transazione fiscale in salita se la protezione non è immediata
Serve il decreto del giudice - Nell’attesa l’impresa può essere «aggredita»
Sono stati sufficienti due soli mesi di applicazione del Codice della crisi per rendere palese l’inadeguatezza del regime delle misure protettive da esso introdotto con riguardo all’accordo di ristrutturazione dei debiti e alla transazione fiscale, facendo rimpiangere le disposizioni previste dal comma 6 dell’articolo 182-bis della legge fallimentare.
Il comma 3 dell’articolo 54 del Codice stabilisce che le misure protettive previste dal precedente comma 2 (consistenti essenzialmente nel divieto di iniziare o proseguire, da parte dei creditori, azioni esecutive e cautelari e di pronunciare, da parte del tribunale, la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato d’insolvenza) possono essere richieste dall’imprenditore anche nel corso delle trattative strumentali alla conclusione di un accordo di ristrutturazione con i creditori, inclusi quelli pubblici. In base all’articolo 55 (comma 2), il giudice, sentite le parti, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione alla misura richiesta. Se la convocazione delle parti può pregiudicare l’attuazione del provvedimento, provvede con decreto motivato e fissa (con lo stesso decreto) l’udienza di comparizione delle parti, per confermare, modificare o revocare i provvedimenti precedentemente emanati.
Pertanto, a differenza di quanto prevedeva il comma 6 dell’articolo 182-bis della legge fallimentare, la richiesta di misure protettive non produce più un effetto immediato e automatico come in passato, fatta comunque salva , anche sotto la vigenza della legge fallimentare, la necessità di un successivo decreto di conferma delle misure da parte del tribunale.
L’eliminazione di tale automatismo e la necessità di un provvedimento del giudice che disponga le misure protettive richieste dall’imprenditore in crisi non sarebbe di per sé da censurare, se la prassi non facesse un cattivo uso delle norme del Codice sopra richiamate, dovuto soprattutto a due fattori:
il primo è costituito dalla sistematica prassi dell’agenzia della Riscossione, che aggredisce l’impresa debitrice, nonostante questa abbia presentato alle Entrate una proposta di transazione fiscale e abbia avviato le trattative necessarie per raggiungere un accordo: ciò rende più oneroso il risanamento e genera un danno allo stesso Erario per cui agisce;
il secondo è costituito dal fatto che non sempre i giudici provvedono con la necessaria tempestività a pronunciarsi sulla richiesta di misure protettive loro formulata, vanificando quindi l’efficacia dell’intervento invocato e l’utilità delle disposizioni che lo prevedono.
Poiché il rischio di aggressioni che ostacolano il risanamento proviene essenzialmente dall’agente della Riscossione, per porre rimedio a questo stato di cose, il legislatore dovrebbe prevedere che le azioni esecutive e cautelari non possono essere iniziate o proseguite dal Fisco nei quattro mesi successivi alla presentazione della proposta di transazione fiscale, cioè per un periodo congruo rispetto a quello che il Codice della crisi concede all’amministrazione finanziaria per pronunciarsi su tale proposta.