Civile

Utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti: buona fede da tutelare

In caso di fatture soggettivamente inesistenti il contribuente non perde il diritto alla detrazione dell'Iva ed alla deduzione del costo. Il Fisco deve provare la consapevolezza e volontà della frode da parte del contribuente

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di Giuseppe Ciminiello, Luca Cellamare*

Ricade sull'amministrazione finanziaria, che intende contestare la detrazione Iva per l'utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti, la prova che il cessionario "sapeva" o "poteva sapere", "secondo la diligenza media", di partecipare ad una evasione di imposta.

Soltanto in tal caso l'onere della prova si sposta sul contribuente che deve a sua volta dimostrare la propria buona fede. È quanto, in estrema sintesi, ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione con la recentissima sentenza n. 11685/2021.

La vicenda

L'Agenzia delle Entrate contestava ad una s.r.l. l'utilizzo di fatture inesistenti, recuperandone la relativa Iva. All'esito di ricorso da parte del contribuente, la legittimità dell'accertamento veniva confermata dai giudici tributari aditi, sul presupposto che, avendo l'ufficio fornito validi elementi per ritenere che le fatture fossero emesse da una cartiera, gravava sulla contribuente (utilizzatrice delle fatture presunte fittizie) l'onere di dimostrare la propria inconsapevolezza circa la qualità di cartiera dell'emittente nonché circa la sussistenza ex ante di un disegno fraudolento in materia di Iva. La vertenza è arrivata in Cassazione, ove gli Ermellini hanno ribaltato gli esiti dei precedenti giudizi accogliendo le doglianze del contribuente.

La diligenza media

È consolidato l'orientamento della Corte secondo cui, in ipotesi di operazioni inesistenti da un punto di vista soggettivo, l'amministrazione che contesti il diritto alla deduzione del costo ovvero alla detrazione dell'Iva debba ritenersi onerata della prova in merito alla "consapevolezza" del cessionario.

Segnatamente l'Ufficio deve dimostrare che il contribuente, al momento dell'acquisto del bene o del servizio, "sapesse" o "potesse sapere", con l'uso della "diligenza media", che l'operazione fosse iscritta in un'evasione o in un sistema fraudolento.

La Cassazione precisa che la dimostrazione della consapevolezza, da parte dell'amministrazione finanziaria, può essere fornita anche attraverso "presunzioni semplici". E cioè tramite semplici elementi "indiziari" che inducono a ritenere che al momento in cui ha stipulato il contratto, il contribuente era nella disponibilità di elementi sufficienti, per un "imprenditore onesto" che opera sul mercato e "mediamente diligente", a comprendere che il soggetto formalmente cedente il servizio aveva, con l'emissione della relativa fattura, evaso l'imposta ovvero compiuto una frode.

La tutela della buona fede

Ciò premesso, tuttavia, la Suprema Corte ha statuito con autorevolezza e rigore che la circostanza che l'operazione si inserisca in una fattispecie fraudolenta di evasione dell'Iva non comporta affatto la perdita, in modo automatico, del diritto alla detrazione.

È indefettibile, difatti, l'esigenza di tutela della buona fede del cessionario. Quest'ultimo in altri termini non può essere sanzionato se "non sapeva" e "non avrebbe potuto sapere" dell'evasione commessa dal fornitore o se un'altra operazione facente parte della "catena di cessioni" fosse inserita in un contesto di evasione dell'Iva.

La prova contraria del contribuente

A questo punto si concreta l'onere probatorio in capo al contribuente che è chiamato a dimostrare la propria "buona fede". Ovverosia di aver operato con la diligenza media esigibile da un "operatore accorto", secondo criteri di "ragionevolezza" e di "proporzionalità" in rapporto alle circostanze del caso concreto.

La prova può riguardare l'attività "conoscitiva preventiva" posta eventualmente in essere dal contribuente che, con esito "tranquillizzante", fosse sintomatica dell'effettività e operatività del soggetto interposto. Quali a titolo esemplificativo e non esaustivo visure camerali storiche, certificazioni carichi pendenti, informazioni commerciali, siti internet ecc..

Giova ricordare, inoltre, che in base all'orientamento giurisprudenziale consolidato è sufficiente sic et simpliciter la prova della regolarità formale della contabilità e dei pagamenti, nonché della effettiva consegna della merce. Tali circostanze sono difatti insite nella nozione stessa di operazioni soggettivamente inesistenti.

Quanto alla prova di un vantaggio derivante dalla rivendita delle merci o dei servizi, quest'ultima risulta irrilevante poiché riguardante un dato "esterno", quindi ultroneo alla fattispecie e pertanto inidoneo a dimostrare (o meno) l'estraneità alla frode. Quanto a quest'ultimo aspetto v'è anche giurisprudenza di segno contrario.

La decisione della Suprema Corte

In applicazione dei suddetti principi la Corte ha cassato la sentenza della Commissione tributaria regionale che si era unicamente soffermata sugli elementi indicati dall'ufficio.

Id est: mancata presentazione delle dichiarazioni fiscali da parte della (presunta) cartiera e mancato pagamento di imposte; assenza di dipendenti e di strutture idonee alla produzione o al deposito del materiale pubblicitario.

Tuttavia, quanto alla consapevolezza, la CTR aveva motivato la sentenza ritenendo gravante sul contribuente utilizzatore delle fatture false l'onere "derivato" di dimostrare che era inconsapevole della sua partecipazione alla frode. In altri termini il giudice tributario ha errato nel ritenere -sic et simpliciter- il contribuente gravato di provare di "non sapere" o "non poter sapere". Invece si è detto che la prova della buona fede del contribuente è soltanto eventuale e secondaria rispetto alla prova dell'ufficio. Dimostrazione che, evidentemente, nel caso di specie la Corte di legittimità ha ritenuto insufficiente e dunque degna di censura, ribaltando quindi totalmente la decisione dei giudici regionali.

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*A cura di:
Avv. Giuseppe Ciminiello , founding associate - Avv. Luca Cellamare, counsel "Studio Legale di Consulenza Tributaria Ciminiello" in Bari


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