Versamento c.d. “in conto futuro aumento capitale”, l’indice di dettaglio incide sull’obbligo di restituzione
Nota a Corte di Cassazione, Sez. I Civile, Ordinanza n. 24093/2023
Si peccherebbe di superfetazione, se si andasse ad aggravare la già agevole definizione di versamento c.d. “ in conto futuro aumento capitale ” che la S.C. ha inteso consacrare nel principio di diritto enunciato con l’ordinanza n.24093/2023 , di altissima rilevanza civilistica.
Attraverso la superiore pronuncia, invero, la Cassazione stabilisce che: per versamenti in conto futuro aumento capitale debbono intendersi tutte quelle “ dazioni di denaro ” che, effettuate dai soci a favore della società, non siano “ acquisite definitivamente al patrimonio sociale” , giacché dotate di uno “ specifico vincolo di destinazione ” (diconsi “riserve targate”); qualora, pertanto, all’aumento non si proceda – soggiungono gli Ermellini – “ il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato , essendo venuta meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale da questi eseguita a favore della società”. Ma, con le dovute precisazioni.
Preliminarmente, giova precisare che la dazione in parola è atta a liberare il debito da sottoscrizione di un futuro aumento del capitale sociale. Donde, la natura “targata” della riserva – poiché è a tale titolo che segue la correlativa iscrizione in bilancio (e, non già, sotto la voce di “finanziamento soci”) – la cui ratio riposa nella chiara finalità di prevenire l’insorgenza di ingiustificati arricchimenti.
Per l’effetto, al di fuori della fattispecie di successiva fruizione a servizio dell’aumento in forza di apposita delibera assembleare all’uopo assunta (cioè a dire, avente a oggetto una modifica dell’atto costitutivo), è escluso che la circolarità dell’operazione sia imputabile al capitale, trattandosi, piuttosto, di apporto finanziario che dà luogo a incremento del patrimonio netto tout court .
Orbene, per potersi utilmente configurare alla stregua di conferimento e non doversi, di contro, procedere alla ripetizione (e, non già, al “rimborso”) del quantum versato, la posta di bilancio, per la quale è riserva (provvisoriamente) targata, in ragione della delibera assembleare cui accede, dovrà nominalmente constare del detto versamento.
Purtuttavia, la coerenza dell’investimento rispetto alla strategia presupposta non determina l’automatismo della ripetizione c.d. “ di indebito ”, non costituendo il mero venir meno della causa negoziale condizione di azionabilità del congegno risolutivo (si legga “restitutorio”), che preliminarmente opera in costanza di un termine certo (in quanto predeterminato), quale prodromo logico/cronologico del vincolo di destinazione cui la condizione stessa della mancata delibera viene consensualmente ancorata.
Passato in rassegna il profilo temporale, in funzione ricognitiva, segue il debito rilievo circa l’elemento volontaristico. Difatti, affinché l’apporto in argomento sia suscettibile di ripetizione, occorre che la volontà dei paciscenti di subordinare l’insorgere del correlativo obbligo di restituzione alla mancata delibera di aumento del capitale (condizione c.d. “ risolutiva ”) emerga inequivocabilmente da oggettivi indici cc.dd. “di dettaglio” a corredo della dazione vincolata , che consentano di qualificarla come tale e, segnatamente, a mero titolo esemplificativo: oltre al già indicato termine essenziale pro delibera (termine essenziale, prima che finale), espressi rinvii a clausole statutarie, così come annotazioni a margine di scritture contabili e/o note integrative al bilancio; ma anche, stante la particolare natura del negozio giuridico, determinazioni dei contraenti in tal senso, etc.
Evidenze tutte, quelle suesposte, delle quali si potrà avere l’opportuna contezza soltanto in costanza di una attenta indagine della volontà dei contraenti, con contestuale adeguamento della stessa alla legge, in ispecie ove si consideri che l’istituto giuridico del versamento in conto futuro aumento capitale è strumento ricorrente nelle società sottocapitalizzate o a ristretta base sociale.
Del che, stante l’insufficienza della mera denominazione contabile (la causale), si rilancia apertamente il tema dell’interpretazione adeguatrice dell’interprete investito del delicato compito di cogliere, del caso concreto, ogni circostanza utile e idonea a meglio appalesare l’effettivo voluto negoziale, alla luce delle finalità empiriche perseguite.
Mediazione che potrà dirsi sapientemente esperita, allorché siano stati tenuti in debito conto gli interessi più liquidi.
Per completezza espositiva, infine, è appena il caso di soggiungere che il rigore di tale approccio trova la propria ragion d’essere nella ineludibile esigenza di introdurre quel dissent volto a tutelare e garantire il fruitore da quelle variazioni della destinazione prescelta che, arbitrarie o comunque rispondenti ai diktat delle politiche di bilancio, esulino dalla coerenza di un processo decisionale conchiuso, in quanto sfornite di una giustificazione puntuale, anche alla luce del complesso quadro normativo nel cui frammentario alveo vanno a inscriversi i diversi trattamenti tax praticabili.
Non può sottacersi, invero, come i profili contabili e fiscali siano sovente driver delle scelte degli operatori. Sicché, semplicemente movendo dal tenore del disposto di cui all’art.2424 c.c., basterebbe soffermarsi sull’equivoco generato dal concetto di elemento patrimoniale c.d. “ durevole ”, per cogliere l’abuso dell’immobilizzazione finanziaria, a detrimento dell’attivo circolante. Ben potrebbe accadere, infatti, che la permanenza durevole di una partecipazione nel portafoglio della società sia intimamente connessa alla strategia del business cui accede.
Ma, cosa devesi intendere per “durevole”, specialmente in costanza di un termine?
L’indice di dettaglio fa la differenza, nella misura in cui l’interprete riesce ad esplicitarlo in tal senso. Non un qualunque fine, sibbene, quello perseguito dalle parti la cui volontà avrà già concretamente provveduto ad acclarare.
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*A cura dell’Avv. Osvaldo Passafaro, Studio Legale Talarico – Passafaro