Assegno divorzile e convivenza more uxorio. Aspettando Godot
Nota a Cass. civ., Sez. I, ord. interlocutoria, 17 dicembre 2020 n. 28995
Il caso. Il tribunale dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio fra Tizio e Caia ponendo a carico del primo l'obbligo di versare all'ex coniuge un assegno mensile di euro 850 e quello di contribuire al mantenimento dei figli minori.
La Corte d'appello in parziale riforma della sentenza di primo grado ed in accoglimento dell'impugnazione proposta dal marito, respingeva la domanda di riconoscimento dell'assegno divorzile proposta dall'ex moglie, avendo questa instaurato una stabile convivenza con un nuovo compagno da cui aveva avuto una figlia. La ricorrente nei nove anni di durata del matrimonio aveva rinunciato ad un'attività lavorativa per dedicarsi interamente ai figli consentendo così al marito di applicarsi al proprio successo professionale quale amministratore di una prestigiosa impresa.
Una delle motivazioni addotte dalla ricorrente che viene ritenuta di particolare importanza, a norma dell'art. 374, 2 co., cod. proc. civ., riguarda la disciplina da riservarsi all'assegno divorzile, laddove il coniuge che ne benefici abbia instaurato una convivenza con un'altra persona.
È questa l'occasione per il Collegio per rimeditare l'indirizzo formatosi nella giurisprudenza di legittimità sull'incidenza che l'instaurazione della convivenza di fatto ha sul diritto dell'ex coniuge all'assegno di divorzio.
Il principio di auto-responsabilità, si legge nell'ordinanza interlocutoria, "merita una differente declinazione più vicina le ragioni della concreta fattispecie ed in cui si combinano la creazione di nuovi modelli di vita con la conservazione di pregresse posizioni in quanto entrambi esito di consapevoli e autonomi scelte della persona."
Le questioni. La giurisprudenza da tempo ha chiarito che l'espressione "famiglia di fatto" non consiste soltanto nel convivere come coniugi, ma indica prima di tutto una "famiglia", portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione e istruzione dei figli. Laddove la convivenza assuma dunque, i connotati di stabilità e continuità, e i conviventi realizzino un progetto di vita in comune (analogo a quello che contraddistingue la famiglia fondata sul matrimonio) attraverso il potenziamento reciproco della personalità dei conviventi e l'educazione dei figli (obblighi e diritti dei genitori nei confronti dei figli sono assolutamente identici, ai sensi dell'art. 30 Cost., in ambito matrimoniale e fuori dal matrimonio, e tale identità di posizione è oggi pienamente ribadita e assicurata dalla riforma della filiazione del 2012/2013), la mera convivenza si trasforma in una vera e propria "famiglia di fatto".
Se il ragionamento dal quale partire è questo, giocoforza, l'assegno divorzile di cui beneficia il partner subisce o può subire delle modificazioni perché il parametro dell'adeguatezza dei mezzi rispetto al tenore di vita (mi si passi il termine, alla luce delle verifiche e delle correzioni operate dalle Sezioni Unite sul tema nel 2018) goduto durante la convivenza matrimoniale da uno dei partner, non può che venir meno di fronte all'esistenza di una vera e propria famiglia, ancorché di fatto. Si rescinde così ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale e, con ciò, ogni presupposto per la riconoscibilità di un assegno divorzile, fondato sulla conservazione.
Questo è stato il ragionamento tenuto dalla giurisprudenza.
Quale rilevanza dunque, della convivenza instaurata dall'ex coniuge beneficiario dell'assegno e della sua incidenza su quest'ultimo? Se con lo scioglimento del vincolo matrimoniale si estingue il dovere reciproco di assistenza morale e materiale di cui all'articolo 143 c.c., il diritto all'assegno di divorzio è riconosciuto ai sensi dell'art. 5, Legge 1 dicembre 1970 n. 898, in seguito all'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge economicamente più debole per far fronte alle proprie esigenze. In particolare, il Tribunale, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può disporre l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno, quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. Si tratta di un giudizio che deve tener conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla "formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune", del reddito di entrambi, valutando tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio.
Premesso che l'art. 5, l. n. 898 del 1970 espressamente prevede che l'obbligo di versare l'assegno di mantenimento cessa se l'avente diritto contrae nuovo matrimonio, nulla si dice in relazione all'instaurata convivenza dello stesso, sebbene durante l'iter che ha accompagnato la riforma attuata con la l. 6 marzo 1987, n. 74 era stata avanzata dalla Sen. M.P. Gravaglia una proposta di legge volta ad estendere la cessazione del diritto all'assegno anche alla convivenza more uxorio del beneficiario, ma non fu accolta (IX Legislatura). Si è quindi, posto il problema, fin da subito con l'entrata in vigore della legge sul divorzio (tra le prime sentenze di merito che si sono occupate del tema, si ricordano: Trib. Napoli, 26.1.1979, in Dir. e giur., 1980, 580; App. Napoli, 9.10.1979, ibidem; Trib. Genova, 20.7.1980, in Giur. di Merito, 1984, 350), della irrilevanza o meno della convivenza instaurata dal beneficiario dell'assegno di divorzio quale causa estintiva operante analogamente all'ipotesi del nuovo matrimonio.
Scartata unanimemente questa strada (cfr. Cass., 9.3.1982, n. 1477, in Foro it., 1982, I, 1924; Cass., 20.11.1985, n. 5717, ivi, 1986, I, 1570; Cass., 22.4.1993, n. 4761, in Giur. it., 1994, I, 1, 1831; Cass., 30.10.1996, n. 9505, in Nuova giur. comm., 1997, I, 305.), si è ritenuto che la convivenza dell'ex coniuge beneficiario potesse incidere quale giustificato motivo, legittimante una revisione del quantum dell'assegno di divorzio.
Ed infatti, quando la convivenza more uxorio venga instaurata successivamente alla sentenza di divorzio e alla conseguente statuizione sull'assegno, causando una modifica delle condizioni patrimoniali del coniuge beneficiario o dell'obbligato, si è al cospetto di una circostanza di fatto idonea a giustificare una revisione del contributo divorzile. Come noto, i provvedimenti relativi ai rapporti tra i coniugi, emessi dal Tribunale, sono suscettibili di revisione, se siano mutati i presupposti sui quali erano fondati. In particolare, l'art. 9 l. div. prevede la possibilità di modificare i provvedimenti assunti dal giudice del divorzio relativamente all'affidamento dei figli ed ai contributi per il coniuge, qualora sopravvengano giustificati motivi. I sopravvenuti motivi, invocati a giustificazione della richiesta di revisione, possono essere molteplici, tra cui: il nuovo reddito, le nuove sostanze, in titolarità al beneficiario dell'assegno post matrimoniale; il depauperamento del patrimonio dell'obbligato o il suo fallimento; l'insorgenza, in capo all'obbligato, di nuovi oneri alimentari, ma anche una convivenza dotata dei requisiti della stabilità e continuità.
La questione rimessa adesso al vaglio delle Sezioni Unite cerca di risolvere il nodo gordiano che da qualche anno si è palesato agli operatori giuridici: fino al 2015 infatti, la giurisprudenza di legittimità parlava di quiescenza dell'assegno divorzile nel corso della convivenza (cfr. Cass. 25 novembre 2010, n. 23968, in Giust. civ., 2011, I, 2343; Cass. 22 gennaio 2010, n. 1096, in Fam. pers. succ., 2010, 754, con nota di Achille, Revisione dell'assegno di divorzio: giustificati motivi sopravvenuti e convivenza more uxorio; Cass. 8 ottobre 2008, n. 24858, in Fam. e dir., 2009, 335, con nota di Russo, Convivenza more uxorio e presupposti per la diminuzione dell'assegno di divorzio; Cass. 7 luglio 2008, n. 18593, in Giur. it., 2009, 1155, con nota di Subrani, Riflessi della convivenza more uxorio su assegno divorzile e assegnazione della casa coniugale). Se da un lato, l'instaurazione di una famiglia di fatto da parte del coniuge avente diritto all'assegno determina sempre, con effetto automatico, la revoca del contributo al mantenimento, rappresentando una condizione sufficiente per il diniego della relativa istanza, a prescindere da ogni ulteriore accertamento, tale regola operazionale veniva però da questa giurisprudenza, stemperata nel suo impatto applicativo: in buona sostanza, si affermava che la convivenza, caratterizzata dalla stabilità e continuità, non definisce la cessazione definitiva dell'assegno di divorzile, ma ne determina la sua sospensione in maniera provvisoria, entrando in uno stato di quiescenza per tutto il periodo in cui duri il rapporto more uxorio, ben potendo la domanda di mantenimento rivivere, in caso di successiva crisi della relazione tra i familiari di fatto.
Di conseguenza, una convivenza priva del carattere della stabilità, continuità e regolarità, nessun effetto potrà avere sull'assegno divorzile. La circostanza che il coniuge separato allacci una relazione di convivenza con altra persona non è di per sé sufficiente ad escludere il suo diritto all'assegno di mantenimento, se tale relazione non abbia i caratteri di stabilità tipici di una convivenza more uxorio (Cass. civ., 12 dicembre 2003, n. 19042, in Dir. e Giust., 2004, 5, 65).
Se la convivenza è caratterizzata da precarietà, neanche la nascita di un figlio è suscettibile di incidere sull'assegno divorzile. "La nascita di un figlio nell'ambito di un rapporto di convivenza, caratterizzato da precarietà e privo di tutela giuridica nei confronti del soggetto economicamente più debole, non costituisce evento idoneo ad incidere, sotto il profilo giuridico, sulla natura della convivenza, potendo unicamente cementare l'unione, ma non certo dar luogo alla insorgenza di diritti ed obblighi. In tal senso, non costituisce causa legittimante una revisione delle condizioni patrimoniali stabilite in sede di divorzio, in quanto il soggetto economicamente più debole non acquisisce quel grado di tutela necessario a giustificare la perdita dei diritti di carattere economico derivanti dal matrimonio" (Cass. civ., 22 gennaio 2010, n. 1096).
A questo orientamento maggioritario, si è contrapposto un minoritario filone giurisprudenziale, secondo il quale la convivenza more uxorio non incide sull'assegno divorzile.
Il diritto all'assegno di divorzio non viene meno se chi lo chiede abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona e detta convivenza rappresenta soltanto un elemento valutabile, al fine di accertare se la parte che richiede l'assegno divorzile dispone o meno di "mezzi adeguati" rispetto al tenore di vita goduto durante il matrimonio (Cass. civ., 26 gennaio 2006, n. 1546).
Secondo questa tesi, non è, infatti, applicabile, né in via estensiva né in via analogica, l'art. 5, comma 10, Legge 898 del 1970, che prevede l'estinzione del diritto all'assegno, qualora il titolare passi a nuove nozze, né si può ritenere che, qualora la convivenza di fatto venga a cessare, rivivrà l'obbligazione del coniuge onerato, in quanto in stato di quiescenza e questo perché: "La convivenza more uxorio ha natura intrinsecamente precaria, non determina obblighi di mantenimento e non ha quella stabilità giuridica, propria del matrimonio, presupposta dalla definitiva cessazione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile, previsto dalla l. n. 898 del 1970, art. 5, comma 10. Né, d'altro canto, si può ovviare a tale mancanza di stabilità giuridica affermando (…) che l'obbligo di corresponsione dell'assegno divorzile possa risorgere in caso di cessazione della convivenza more uxorio, poiché de iure condito è prevista la cessazione e non semplicemente la sospensione dell'obbligo di corrispondere l'assegno divorzile" (Cass. civ., 26 gennaio 2006, n. 1546).
Successivamente invece, la Cassazione ha affermato che, iniziando una relazione more uxorio, il coniuge perde per sempre il diritto al mantenimento e l'altro coniuge non può più essere, pertanto, dichiarato tenuto alla corresponsione degli emolumenti, neppure dopo l'eventuale crisi della famiglia di fatto. Questa operazione viene fatta dal Palazzaccio per la prima volta con la sentenza 3 aprile 2015, n. 6855 nella quale la Prima Sezione ha enunciato un principio di forte rottura con il precedente orientamento: "L'instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell'assegno divorzile a carico dell'altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la formazione di una famiglia di fatto - costituzionalmente tutelata ai sensi dell'art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell'individuo - è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l'assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l'altro coniuge, il quale non può che confidare nell'esonero definitivo da ogni obbligo."
Secondo la Cassazione, l'instaurazione di una famiglia di fatto, da parte dell'ex coniuge debole, rescinde "ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale" e ritiene di dover superare la precedente teorizzazione della "quiescenza" del diritto all'assegno suscettibile di "rivivere" in caso di cessazione della convivenza tra i familiari di fatto, per pervenire invece alla diversa conclusione che la nuova famiglia di fatto dell'ex coniuge debole determina di per sé solo la perdita definitiva del diritto all'assegno di divorzio.
Alla Corte sembra più coerente affermare che "una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli (…) dovrebbe essere necessariamente caratterizzata dall'assunzione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra i conviventi".
Avviene così una completa assimilazione tra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio: come il nuovo matrimonio, così anche la convivenza more uxorio, comportando l'insorgenza di una nuova famiglia, costituisce un evento che è incompatibile con la tutela accordata all'ex coniuge debole e deve ritenersi quindi idonea a determinare l'identica conseguenza della cessazione del diritto a ricevere l'assegno di divorzio. Questa cesura operata dalla Cassazione rispetto al precedente orientamento, viene fatta raccogliendo le istanze europee indicati negli atti della Commissione per il diritto europeo della famiglia, (Principi di diritto europeo della famiglia sul divorzio e il mantenimento tra ex coniugi), che, al fine di favorire il ravvicinamento degli ordinamenti, agli artt. 2.2, 2.3 e 2.4, raccomanda ai legislatori nazionali di attenersi al principio in base al quale: "Dopo il divorzio ciascun coniuge provvede ai propri bisogni"; "L'attribuzione del mantenimento dopo il divorzio presuppone che il coniuge richiedente non abbia mezzi adeguati per fare fronte ai propri bisogni e che il coniuge obbligato abbia la capacità di soddisfare tali bisogni"; "Nel determinare il mantenimento, si deve tener conto in particolare dei seguenti fattori: la capacità lavorativa dei coniugi, l'età, lo stato di salute; la cura dei figli minori; la ripartizione dei doveri durante il matrimonio; la durata del matrimonio; il tenore di vita durante il matrimonio e qualsiasi successivo matrimonio o convivenza duratura".
Questa linea di pensiero riecheggia prepotentemente nella sentenza Lamorgese del 2017 (Cass. 10 maggio 2017 n. 11504) che fa leva sull'auto-responsabilità come principio cardine che muove la vita dei coniugi anche sul fronte post coniugale affermandosi che con il divorzio si perfeziona una "fattispecie estintiva del rapporto matrimoniale" sul piano "sia dello status personale dei coniugi, i quali devono perciò considerarsi da allora in poi ‘‘persone singole'', sia dei loro rapporti economico-patrimoniali e, in particolare del reciproco dovere di assistenza morale e materiale, fermo ovviamente, in presenza di figli, l'esercizio della responsabilità genitoriale, con i relativi doveri e diritti, da parte di entrambi gli ex coniugi". La Cassazione con questa sentenza ritorna all'interpretazione proposta nel 1990 con una sentenza di legittimità (Cass., 2 marzo 1990, n. 1652) che le Sezioni Unite di quello stesso anno avevano ritenuto non condivisibile "intende evitare che si realizzi un indebito arricchimento per l'avente diritto" all'assegno (Roma, Assegno di divorzio: dal tenore di vita all'indipendenza economica, in NGCC, 2017, I, 1004), riconoscendo così all'assegno di divorzio natura esclusivamente ‘‘assistenziale'', che giustifica la doverosità della sua prestazione (ex art. 23 Cost.), in favore dell'ex coniuge economicamente più debole (ex art. 2 Cost.).
Il principio di auto-responsabilità è recuperato dalle Sezioni Unite del 2018, ma in considerazione della funzione assistenziale e perequativo-compensativa attribuita all'assegno di divorzio dalle Sezioni Unite del 2018: il diritto alla corresponsione dello stesso viene meno, quando sopraggiungano circostanze fattuali che comportino una modifica significativa della situazione economica delle parti, aprendo un nuovo giudizio nel quale il diritto all'assegno divorzile e la sua quantificazione dipendono sempre dall'interpretazione data dal giudice al disposto dell'art. 5 legge divorzio. Pertanto, il giudice di merito dovrà effettuare una nuova valutazione comparativa delle rispettive situazioni economiche dei coniugi, da loro provate.
L'ordinanza interlocutoria del 17 dicembre 2020 ha rimesso la questione al vaglio delle Sezioni Unite perché alla luce delle nuove domande, occorre declinare il principio di auto-responsabilità in modo differente e più aderente al caso concreto attraverso "la creazione di nuovi modelli di vita con la conservazione di pregresse posizioni, in quanto entrambi, esito di consapevoli ed autonome scelte della persona". Emerge da queste parole la necessità di considerare specificamente le scelte condivise effettuate nel corso del matrimonio, che possano aver inciso sulla vita e sulla professionalità di uno dei coniugi.
Ancora una volta è il giudice che si fa latore delle istanze che emergono dalla vita di tutti i giorni al cospetto di un legislatore silente per non dire latitante. L'esigenza di un intervento normativo viene considerata ormai indispensabile, non solo per evitare situazioni di incertezza, ma anche e soprattutto per stabilire in via definitiva quale funzione si voglia attribuire alla disciplina dei rapporti patrimoniali susseguenti al divorzio. Tanto è vero che il 27 luglio 2017 è stato presentato un disegno di legge (n. 4605) in modifica alla legge sul divorzio. Il fine è proprio quello di affermare che l'assegno divorzile non ha in realtà una finalità assistenziale, ma una finalità "perequativo-partecipativa", cercando di evitare, ad un tempo, come si legge dalla relazione, "indebiti arricchimenti" e il "degrado esistenziale", cui lo scioglimento del matrimonio espone il coniuge più debole "che abbia confidato nel programma di vita del matrimonio", dedicandosi alla cura della famiglia e rinunciando ad una propria carriera professionale.
Ma nell'attesa del miracolo, è il giudice che deve sporcarsi le mani e chiedere un chiarimento per dare uniformità ad un principio che opera senza tenere conto dei casi particolari, ma per assiomi ineludibili e se così stanno le cose, si può provare a dire che essendosi superato quell'orientamento che teorizzava la conservazione del tenore di vita (parametro non contemplato dalla Legge sul divorzio) matrimoniale anche dopo il divorzio, l'esito cui si perviene è quello di ricondurre il parametro dell'inadeguatezza dei redditi a quanto necessario per sopperire, secondo un criterio di normalità, ai bisogni di una vita autonoma e dignitosa. Inoltre, ad oggi, non essendo intervenuto il legislatore, sul piano della disciplina della materia, viene in rilievo il dato normativo, solitamente poco valorizzato dagli interpreti, ma che assume invece un sicuro rilievo nella ricostituzione della figura, relativo proprio alla circostanza che l'ex coniuge richiedente, oltre che privo di mezzi adeguati, deve essere anche non risposato.
* di Valeria Cianciolo, Foro di Bologna