La Corte di Giustizia riscrive l’assetto degli amministratori dipendenti
Beneficia delle garanzie ex Dir. 2008/94 il lavoratore che, pur esercitando sulla base di un contratto valido per l’ordinamento nazionale, operi in qualità di dipendente e al contempo come Presidente plenipotenziario dell’organo amministrativo
Secondo un orientamento giurisprudenziale consolidato (ex pluribus: Cass. 36362/2021, sulla scorta di Cass. SS.UU. 1545/2017) il ruolo di amministratore unico o di amministratore delegato munito di poteri estesi è incompatibile con il rapporto di lavoro subordinato della stessa persona.
In estrema sintesi, ciò è dovuto al fatto che l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato presuppone l’assoggettamento a direttive altrui, che non potrebbero materializzarsi se tale potere direttivo fosse impersonificato nella medesima persona in virtù del duplice ruolo ricoperto nella società e della conseguente “immedesimazione organica”.
Tale conclusione è stata condivisa non solo dalla giurisprudenza tributaria (che conduce alla indeducibilità dei compensi di lavoro dipendente), ma trae fondamento dalla conforme giurisprudenza civilistica in materia di rapporti di lavoro e delle conseguenti ricadute previdenziali.
La sintesi è condivisa da larga parte della dottrina, dalla prassi dell’Agenzia delle Entrate e, in particolare, dal Messaggio INPS 3359/2019 con il quale l’Istituto ha chiarito che la compatibilità amministratore/dipendente è possibile solo a rigorose condizioni, ovvero:
- Che il potere deliberativo sia affidato all’organo amministrativo collegiale espressione della volontà imprenditoriale con rilevanza esterna;
- Che sia fornita la prova del vincolo di subordinazione del lavoratore interessato all’effettivo potere di supremazia gerarchica dell’organo collegiale o di altro amministratore delegato;
- Che il soggetto svolga in concreto mansioni estranee al rapporto organico di amministratore con la società.
In questo quadro ben definito si innesta la Sentenza della Corte di Giustizia dell’unione Europea n. 101/21 del 05/05/2022.
Il caso proviene dalla Repubblica Ceca in un contesto che pare assimilabile a quello italiano.
Un lavoratore dipendente assunto nel 2010 viene “promosso” a presidente del Consiglio di Amministrazione della società nel corso del 2017. Società che fallisce nel 2018.
Non avendo ricevuto tutti i pagamenti dei suoi stipendi, chiede che il pagamento degli arretrati gli sia garantito in applicazione della legge 118/2000 della Repubblica Ceca, emanata in attuazione della Direttiva 2008/94. La direttiva impone agli stati membri di garantire i lavoratori subordinati dalle conseguenze dell’insolvenza del datore di lavoro (art. 3), purché non si siano verificati abusi, quale quello che potrebbe derivare dalla circostanza che il lavoratore sia stato proprietario di una parte essenziale dell’impresa e abbia avuto una notevole influenza sulla sua attività (art. 12).
In base al diritto ceco, analogamente a quello italiano, il rapporto di lavoro subordinato presuppone la sussistenza di un rapporto gerarchico col datore di lavoro, che, in tali circostanze, sarebbe venuto meno: la richiesta di garanzia viene quindi respinta dai tribunali della Repubblica Ceca proprio per il fatto che, nonostante la stipula del contratto di lavoro fosse valida, nelle circostanze del caso “non esisterebbe alcun rapporto di lavoro tra tale membro e detta società” mancando il vincolo di subordinazione.
Con una motivazione tesa a criticare la presunzione legale implicita per cui l’esercizio cumulato delle funzioni di dirigente e di amministratore impediscono di qualificare come esistente il rapporto di lavoro subordinato, senza che si sia effettivamente verificato un abuso [nella forma della collusione tra lavoratore e datore di lavoro, ad esempio - ndr], la Corte di Giustizia ha stabilito che “L’articolo 2, paragrafo 2, e l’articolo 12, lettere a) e c), della direttiva 2008/94/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2008, relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro, come modificata dalla direttiva (UE) 2015/1794 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 6 ottobre 2015, devono essere interpretati nel senso che ostano a una giurisprudenza nazionale secondo la quale una persona che esercita, sulla base di un contratto di lavoro valido alla luce del diritto nazionale, cumulativamente le funzioni di direttore e di membro dell’organo statutario di una società commerciale non può essere qualificata come lavoratore subordinato, ai sensi di tale direttiva, e, pertanto, non può beneficiare delle garanzie previste da detta direttiva.”.
C’è da chiedersi, quindi, come tale sentenza impatterà a livello nazionale, giacché è di tutta evidenza che sarebbe contraddittorio ammettere al privilegio gli stipendi arretrati del lavoratore subordinato nonché amministratore, e al contempo sostenere la sopravvenuta inesistenza del rapporto di lavoro ai fini giuslavoristici, contributivi (per il dipendente) e fiscali (per l’impresa).
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*A cura di Giampiero Guarnerio, Dottore Commercialista e Revisore Legale, Rödl & Partner