Amministrativo

La Plenaria del Consiglio di Stato definisce i limiti del rinvio al Tar

immagine non disponibile

di Maria Alessandra Sandulli

Con le ampie e articolate sentenze 10 e 11 del 30 luglio e 14 del 3 settembre, l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato – disattendendo i dubbi interpretativi sollevati dalle sezioni III, IV e V oltre che dal Cga a fronte della deprecabile tendenza a definire i giudizi in rito – ribadisce il carattere tassativo ed eccezionale dei casi in cui l'accoglimento dell'appello avverso le sentenze dei Tar impone il rinvio al primo giudice e coglie apprezzabilmente l'occasione per stigmatizzare le pronunce che offrono motivazioni solo apparenti.

Nel sottolineare che le ipotesi di rinvio contemplate (con la formula delimitativa “soltanto”) dall'art. 105 c.p.a. (errores in procedendo che abbiano determinato la mancanza del contraddittorio, la violazione del diritto di difesa o la nullità della sentenza; erronea dichiarazione dell'incompetenza e/o della giurisdizione; erronea dichiarazione di estinzione e di perenzione) costituiscono una deroga (come tale insuscettibile di interpretazione estensiva e analogica) al principio devolutivo dell'appello, l'organo di nomofilachia ha significativamente valorizzato la necessità di evitare che, erodendo la loro tassatività, si contravvenga all'esigenza di “certezza e di prevedibilità che, specie in materia processuale, deve essere assicurata al più alto livello possibile e si determini “un allungamento indefinito del giudizio”, con un allontanamento dal bene ultimo del processo, costituito dal giudicato sostanziale. E ha coerentemente affermato che il doppio grado di giudizio non richiede una doppia pronuncia sul merito.

Il richiamo al principio di effettività della tutela torna con forza nei passaggi in cui – toccando uno dei profili più delicati e critici di un sistema legislativo che pericolosamente spinge verso un'aprioristica e indiscriminata restrizione dei tempi di decisione e indebitamente favorisce la redazione di “sentenze in forma semplificata”, a prescindere dalla rilevanza e complessità del giudizio (imponendola anzi proprio per quelli ontologicamente più complessi, come quelli in materia di contratti pubblici) – la Plenaria, sensibilizzata dalle criticità opportunamente segnalate dalle ordinanze di rimessione, coglie opportunamente l'occasione per soffermarsi sul contenuto dell'obbligo (costituzionalizzato) di motivazione delle sentenze.

Pur rappresentando che il carattere sostitutivo dell'appello consente sempre al suo giudice di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente (ciò che escluderebbe, anche ai sensi dell'art. 101 c.p.a., che l'omesso esame di una domanda o di un motivo implichi il rinvio al Tar), il Supremo Consesso precisa che l'ipotesi della motivazione viziata (perché incompleta o contraddittoria) si differenzia da quella della motivazione radicalmente assente o meramente apparente (ovvero “tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile”), che integra piuttosto un caso di nullità (costituzionalmente rilevante) della decisione, “dando luogo ad una sentenza abnorme ancor prima che nulla”. Ciò accade quando a sostegno dell'accoglimento o non accoglimento del ricorso il giudice “non individua neppure una ragione ulteriore rispetto alla generica affermazione della sua fondatezza o infondatezza, di cui, però, non viene dato conto e spiegazione, se non attraverso l'utilizzo di astratte formule di stile”.

In proposito, l'organo di nomofilachia rimarca fermamente che “La motivazione apparente non è sindacabile dal giudice, in quanto essa costituisce un atto d'imperio immotivato, e dunque non è nemmeno integrabile, se non con il riferimento alle più varie, ipotetiche congetture, ma una sentenza “congetturale” è, per definizione, una non-decisione giurisdizionale – o, se si preferisce e all'estremo opposto, un atto di puro arbitrio – e, quindi, un atto di abdicazione alla potestas iudicandi”.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©