Rischio intereferenziale, il committente non risarcisce solo se adempie ai propri obblighi
La regola generale è che il lavoro svolto dalla ditta appaltatrice che comporti un infortunio al proprio dipendente sia a rischio di interferenze quando eseguito presso l’impresa del committente
Al committente non basta affermare l’assenza di interferenze tra la propria attività e quella dell’appaltatore che svolga un lavoro presso l’azienda del committente. Ma deve dimostrare di avere adempiuto a tutti gli obblighi che gravano su di lui in base alle disposizioni del testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, al fine di poter essere sollevato da qualsiasi responsabilità per l’infortunio che si sia verificato in danno di un dipendente della società appaltatrice durante l’esecuzione di lavori presso il committente.
Nel caso specifico la Cassazione civile con la sentenza n. 25113/2025 ha, infatti, accolto diverse parti del ricorso dei danneggiati dall’infortunio sul lavoro occorso a uno dei familiari in esecuzione delle proprie mansioni presso altra ditta. In particolare è stata dichiarata la responsabilità anche della ditta committente, in quanto non risulta provato l’adempimento degli obblighi imposti. E ha chiarito che al fine di escludere la sussistenza del danno parentale che è insito nell’infortunio di un familiare è lo stesso imprenditore chiamato a risponderne che deve dimostrare l’assenza di quelle relazioni familiari atte a giustificare l’affermazione del danno in proprio patito dai parenti del lavoratore infortunato.
Gli obblighi imposti a contrasto del cosiddetto rischio interferenziale vanno adempiuti nei modi imposti dal testo unico. Specificatamente dall’articolo 26 del Dlgs 81/2008 (precedentemente articolo 7 del Dlgs 626/1994) che in caso di appalti prescrive a carico del committente che affidi ad altre imprese singole fasi di produzione di procedere a:
- valutazione dei rischi,
- informazioni,
- formazione,
- adozione di misure,
- cooperazione all’attuazione delle misure,
- coordinamento e
- controllo.
Con la conseguenza che - in base a precedenti di giurisprudenza in applicazione della norma del testo unico - “la responsabilità del committente (in relazione agli obblighi suindicati) è oggi normalmente implicata nell’esecuzione di un’attività produttiva attraverso contratti di appalto; talché il committente ne risponde tutte le volte in cui nel caso concreto non ha adempiuto ai propri obblighi in materia”.
Tra i precedenti indicati nella sentenza risulta pregnante la decisione di legittimità n. 11918/2025 perché ha espresso preciso principio di diritto ha sancito il seguente principio di diritto: “Il datore di lavoro committente, che affidi lavori, servizi o forniture ad impresa appaltatrice nell’ambito della propria azienda nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo della medesima, è tenuto, ove abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto, all’adempimento degli specifici obblighi imposti dall’art. 26 del d. lgs. n. 81 del 2008 e s.m.i.; nel caso di inadempimento di tali obblighi, il committente può essere ritenuto responsabile dell’infortunio sul lavoro occorso ai dipendenti dell’impresa appaltatrice, anche in mancanza di qualsiasi ingerenza sull’attività di quest’ultima”.
Sull’altra questione del danno parentale che era stato negato ai congiunti del lavoratore infortunato - in relazione a un familiare portatore di handicap che necessita di assistenza da parte della propria famiglia - i giudici lo avevano escluso per la mancata prova in merito alla sussistenza del pregiudizio asseritamente subito.
La Cassazione spiega, invece, che la situazione in termini di onere probatorio del danno parentale è specularmente diversa dal convincimento espresso nella sentenza impugnata dove appunto viene sostenuta la mancanza di prova della situazione posta alla base della domanda di risarcimento.
Infatti, nel caso di invalidità o morte di un congiunto il danno parentale per quanto non è in re ipsa è comunque presunto a meno che il responsabile dell’evento dannoso e tenuto al risarcimento non dimostri che non sussiste il legame affettivo e la consuetudine alla condivisione tra chi chieda il risarcimento e la persona vittima dell’incidente. Ossia - al fine di escludere il risarcimento di tale voce di danno per così dire presunto - va dimostrato “negativamente” che non sussisteva una vita condivisa e neanche una frequentazione abituale tra il diretto danneggiato e il familiare che domanda il risarcimento. Assenza di relazioni se non addirittura la prova di una relazione di odio tra i parenti coinvolti.