Famiglia

Matrimonio di comodo, l'Ambasciata può negare il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare

Lo afferma la Corte d'appello di L'Aquila, sezione civile, con la sentenza 21 ottobre 2021 n. 1599

di Andrea Alberto Moramarco

In tema di permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare, all'autorità diplomatica è consentita la valutazione circa la sussistenza di un eventuale "matrimonio di comodo", in quanto attinente a uno dei presupposti del diritto al ricongiungimento familiare che l'autorità amministrativa è chiamata a riconoscere. Ad affermarlo è la Corte d'appello di L'Aquila con la sentenza n. 1599/2021 ritenendo pienamente legittimo il potere dell'autorità diplomatica italiana presso il paese straniero di verificare la sussistenza di possibili matrimoni in frode alla legge.

La vicenda
Il caso riguarda un cittadino egiziano che aveva contratto matrimonio con una donna italiana, il quale si era visto negare dall'Ambasciata dell'Italia in Egitto il visto di soggiorno per ricongiungimento familiare,. Dalle indagini eseguite erano emersi, infatti, diversi elementi che facevano presumere si trattasse di un matrimonio fittizio: notevole differenza di età tra i coniugi; mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell'uomo; assenza di una lingua veicolare; mancata conoscenza della città di residenza della moglie; assenza di una frequentazione tra i coniugi precedente al matrimonio. In sostanza, il matrimonio era stato contratto al fine esclusivo di consentire al richiedente di entrare o soggiornare nel territorio dello Stato italiano.
La questione finiva così dinanzi ai giudici che ritenevano corretta la scelta effettuata dall'Ambasciata. Per la moglie del cittadino egiziano, invece, l'Ambasciata, in generale priva del potere di sindacare la effettività del matrimonio, avrebbe dovuto rilasciare il visto d'ingresso sulla base della sola constatazione che il matrimonio fosse stato celebrato.

La decisione
Dopo il verdetto di primo grado che confermava lo stop imposto dall'Ambasciata, anche la Corte d'appello si esprime in tal senso soffermandosi sulla legittimità del potere della Pubblica amministrazione, e in particolare delle Ambasciate, di «sindacare nel merito la sussistenza dei presupposti per il ricongiungimento familiare». Per i giudici, che danno atto che sul tema vi è un contrasto nella giurisprudenza di merito, occorre capire «in quale fase del procedimento questo potere possa essere esercitato e se lo stesso potere possa essere riconosciuto anche alle rappresentanze diplomatiche in sede di prima verifica ai fini del rilascio del visto d'ingresso».
Ebbene, analizzando la disciplina europea e quella nazionale di recepimento, la Corte afferma che gli Stati membri sono chiamati a verificare la sussistenza dell'esistenza di vincoli familiari, potendo a tal fine convocare per colloqui il soggiornante e i suoi familiari e condurre altre indagini che ritengano necessarie. Ciò detto, gli Stati devono «necessariamente ricorrere al tramite delle Ambasciate, le quali sono in prima persona investite dell'istruttoria volta al rilascio del visto d'ingresso». Da ciò deriva, chiosa la Corte, che tra le autorità preposte al riconoscimento del diritto al ricongiungimento familiare rientrino a pieno titolo anche le Rappresentanze diplomatiche, che possono «eseguire approfondimenti ogni volta che esistano fondati sospetti, di cui dovranno evidentemente dar conto in motivazione».

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