Casi pratici

Legge Pinto: novità ermeneutiche

Legge Pinto e principio di ragionevole durata dei processi

di Laura Biarella

la QUESTIONE
Come si svolge il riformato procedimento per il risarcimento danni per irragionevole durata del processo ex lege n. 89/2001? Qual è la natura delle varie fasi che lo compongono? In che direzione si sono attestati i più recenti indirizzi ermeneutici?


La violazione del principio di ragionevole durata dei processi costituisce un aspetto fortemente afflittivo per ogni attuale sistema giuridico che voglia dirsi democratico. Invero, minare uno dei diritti fondamentali di ogni uomo, quale è l'accesso alla giustizia in tempi ragionevoli, è indice di estrema superficialità nell'approccio ai valori dettati tanto dall'art. 111 della nostra Carta fondamentale, quanto dalla « Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali » , e in particolare dall'art. 6, primo paragrafo della stessa. Si tratta, invero, di evitare che si protragga per un tempo non ragionevole una situazione che di per sé è già fonte di un disagio di notevoli dimensioni per il cittadino. Per valorizzare la tutela del principio appena richiamato la legge 24 marzo 2001, n. 89, nota anche come legge Pinto, ha coniato un procedimento per mezzo del quale è possibile chiedere il risarcimento dei danni subiti dalla violazione della ragionevole durata dei processi. In particolare, laddove la persona lesa dall'eccessiva durata del processo riceva, nelle forme previste dalla legge 24 marzo 2001, n. 89, un risarcimento danni in misura pari a quello che avrebbe ricevuto attivandosi dinanzi alla Corte europea dei diritti dell'uomo, costui non avrà più motivo di agire a Strasburgo. La legge Pinto affida il procedimento in parola alla competenza delle Corti d'Appello. Tale procedimento, articolato su più fasi (infra), nel contesto italiano ha condotto, in poco più di un decennio, a numerose condanne estremamente pesanti ai danni dello Stato. In una situazione di crisi economica è parso necessario ridisegnare alcuni aspetti della legge Pinto stessa, così da cercare di limitare la dimensione del fenomeno delle richiamate condanne. Tale finalità è stata perseguita col D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134, che modifica in maniera forte molti aspetti processuali della legge Pinto, sollevando non pochi dubbi per gli operatori giuridici.


Procedimento delineato dalla legge Pinto
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (23 luglio 2019, n. 19883), in tema di equa riparazione, hanno chiarito che non sussiste alcun pregiudizio per il creditore dello Stato, vittima di un processo durato oltre la ragionevole durata, che non propone la domanda di indennizzo entro sei mesi dalla fine del procedimento di cognizione che accerta il suo diritto. Il termine, nella sola ipotesi in cui il creditore è lo Stato, scatta, infatti quando il giudizio esecutivo è definitivo: le due fasi vanno considerate, infatti, come un'unica. Nella stessa occasione è stato ulteriormente precisato che, ai fini dell'individuazione della ragionevole durata del processo rilevante per la quantificazione dell'indennizzo previsto dall'art. 2 della l. n. 89 del 2001, la fase esecutiva eventualmente intrapresa dal creditore nei confronti dello Stato-debitore, principia con la notifica dell'atto di pignoramento e termina allorché diventa definitiva la soddisfazione del credito indennitario. Infine, il giudizio di ottemperanza promosso all'esito della decisione di condanna dello Stato al pagamento dell'indennizzo, di cui alla l. n. 89 del 2001, deve considerarsi sul piano funzionale e strutturale pienamente equiparabile al procedimento esecutivo, dovendosi considerare unitariamente rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all'indennizzo.


Prima fase del procedimento
Prima che intervenisse la riforma da ultimo richiamata, il procedimento volto a ottenere l'equa riparazione era strutturato secondo le forme del rito camerale. In effetti, l'interessato doveva procedere con un ricorso indirizzato al presidente della Corte d'Appello, che avrebbe provveduto secondo quanto stabilito dall'art. 737 del codice di rito a fissare l'udienza in camera di consiglio per la discussione. Successivamente, il ricorrente avrebbe dovuto notificare il ricorso e il decreto di fissazione della camera di consiglio all'amministrazione convenuta. Al fine di semplificare il procedimento in parola, attualmente, sebbene lo stesso s'introduca sempre con ricorso dinanzi al Presidente della Corte d'Appello, da individuare secondo i dettami dell'art. 11 c.p.p. nella Corte più vicina al distretto nel quale si è tenuto il processo del quale si discute, cambia lo step successivo. In effetti, depositato il ricorso, il Presidente medesimo, o un altro magistrato individuato dallo stesso, ha trenta giorni di tempo per emettere un decreto motivato di accoglimento o di diniego. Nel primo caso il ricorrente potrà giovarsi del provvedimento stesso, giacché il decreto, in siffatta ipotesi, contiene altresì l'ingiunzione al Ministero convenuto affinché lo stesso corrisponda il quantum individuato a titolo di risarcimento.
Diversamente, avverso il decreto che rigetta la richiesta del soggetto, può essere proposta impugnazione dinanzi alla medesima Corte d'Appello nelle forme degli artt. 737 ss. del codice di rito, e non più dinanzi alla Corte di Cassazione come avveniva prima della richiamata riforma. Pertanto, il procedimento vigente appare articolato su due fasi: la prima, che potremmo definire di ingiunzione oltre che sommaria, e la seconda, eventuale, che si avvia con l'opposizione, camerale e a contraddittorio instaurato. Giova precisare che la Corte di Cassazione ha avuto modo di chiarire come la legittimazione ad agire nel procedimento in parola spetta esclusivamente con riferimento ai processi propri (così Cass. civ., Sez. I, n. 15250/2011). Pertanto, devono ritenersi privi del presupposto processuale in parola coloro i quali sono rimasti estranei alla causa presupposta. Ulteriormente, è stato chiarito che neppure l'avvocato può surrogarsi al cliente debitore, e quindi non può agire in proprio contro il ministero della Giustizia per ottenere l'indennizzo per l'eccessiva durata del processo in luogo del proprio cliente. Lo ha stabilito il Trga di Trento, sentenza n. 113/2019, dichiarando, sotto questo profilo, inammissibile il ricorso presentato in via surrogatoria dal professionista. Il diritto all'equa riparazione, infatti, ha spiegato la decisione, «riguarda il (ed ha natura di) danno non patrimoniale, ed è un diritto personalissimo», di natura tale che (come affermato dalla Corte di cassazione, n. 22975/2017), «non può essere fatto valere in via surrogatoria». Inoltre, sotto un profilo più generale, l'esperimento dell'azione surrogatoria «non è compatibile con il giudizio amministrativo che "non conosce ipotesi di legittimazione anomala». La richiesta di ottemperanza al decreto decisorio della Corte d'appello configura, infatti, un'azione surrogatoria ai sensi dell' articolo 2900 del codice civile.


Contenuto del ricorso
Il ricorso introduttivo che apre il procedimento delineato dalla legge Pinto segue le forme previste dall'art. 125 del codice di rito. Pertanto, lo stesso dovrà indicare l'ufficio giudiziario, le parti e i loro dati anagrafici, l'oggetto, le ragioni della domanda e le conclusioni, oltre a contenere la procura del difensore. Invero, la particolarità del ricorso in parola è data dal fatto che la legge stessa individua le ipotesi in cui è rispettato o viceversa violato il principio della ragionevole durata all'art. 2, n. 2 bis ; pertanto, per valutare il proprio diritto all'equo indennizzo, al ricorrente è utile procedere ad un calcolo dei giorni intercorsi tra la data di notifica dell'atto di citazione (o di deposito del ricorso, a seconda dell'archetipo processuale da seguire nel processo presupposto) e quella della pubblicazione della sentenza che lo conclude, sottraendo i periodi individuati dall'art. 2, n. 2 quater della legge Pinto stessa. Inoltre, nel ricorso de quo è estremamente importante procedere a evidenziare i comportamenti virtuosi tenuti dall'attuale ricorrente in sede di processo presupposto, facendo emergere come la violazione del principio di ragionevole durata non sia scaturita dal suo agire. Infine, per prevenire il rischio che la condanna emessa sia pari a euro 500 per ogni anno di ingiustificato ritardo, secondo il limite minimo fissato dalla legge de qua , pare opportuno procedere, in sede di ricorso, a una quantificazione del petitum (la cui misura massima è comunque fissata in 1.500 euro per ogni anno ai sensi dell'art. 2 bis della legge Pinto).


Seconda fase del procedimento
Nell'ipotesi di rigetto, come si accennava, è possibile proporre ricorso dinanzi alla medesima Corte d'Appello. In siffatta ipotesi, verrà a instaurarsi un processo secondo il modello del rito camerale. A differenza della prima fase, ovverosia il procedimento di ingiunzione privo di qualsivoglia contraddittorio tra le parti, se vi è opposizione al decreto con cui la Corte d'Appello rigetta il ricorso si apre dunque una fase che segue le forme del giudizio camerale in linea con gli artt. 737 ss. del codice di rito, nella quale si dispiega il contraddittorio tra il ricorrente e la pubblica amministrazione. Tale procedimento camerale si conclude con un provvedimento impugnabile dinanzi alla Corte di Cassazione.
Termini per notificare il ricorso, possibili interpretazioni e soluzione delle Sezioni Unite
Con riferimento al procedimento per l'equa riparazione la giurisprudenza ha avuto modo di confrontarsi con una problematica pratica di primaria importanza. Si tratta della questione concernente la perentorietà o meno dei termini per notificare il ricorso in base alla legge Pinto. In effetti, potrebbe capitare che colui il quale agisce al fine di ottenere il risarcimento danni per l'ingiustificata lunghezza del processo, si trovi a non notificare il ricorso in tempo utile, ad esempio perché il suo Avvocato non ha ricevuto la comunicazione dell'udienza camerale. In siffatta ipotesi la giurisprudenza si è interrogata circa la possibilità per la parte di avere a disposizione un nuovo termine o meno. La legge Pinto non detta alcun termine in tal senso, e invero le uniche indicazioni emergono dall'art. 3 della stessa, che prevede un termine dilatorio di comparizione di quindici giorni per la difesa dell'Amministrazione, oltre che dall'art. 4, che chiarisce che la domanda decade se il ricorso viene depositato trascorsi sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che si suppone abbia violato il principio della ragionevole durata del processo. Dinanzi a tale quadro normativo, in seno alla giurisprudenza della Suprema Corte si erano venute a creare due tesi opposte; la prima a parere della quale non procedere con la notifica del ricorso nel termine assegnato comporterebbe l'improcedibilità dell'appello, in linea con l'art. 154 del codice di rito. Detta interpretazione ritiene che non rilevi la mancata comunicazione all'Avvocato a fronte di un termine ordinatorio quale è, secondo la ricostruzione de qua , quello in questione (così Cass. civ., Sez. II, n. 18580/2012). Diversamente, l'opinione che fa propria la tesi contrapposta evidenzia la mancanza, all'interno della legge Pinto stessa, di un termine da osservare con riferimento alla notifica del ricorso, elemento che sembra bastare per giustificare la possibilità per la parte che non ha notificato in tempo utile il ricorso stesso, di avere a disposizione un nuovo termine (così Cass. civ., Sez. VI, n. 7020/2012). Sul punto, sono infine intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione dirimendo la vexata quaestio nel secondo senso richiamato e in particolare chiarendo che i termini per notificare il ricorso alla luce della normativa dettata dalla legge Pinto non sono perentori; pertanto, nell'ipotesi di mancata comunicazione della fissazione dell'udienza la parte potrà giovarsi di un nuovo e successivo termine utile per procedere alla notifica del ricorso in parola (così Sez. Unite, n. 9558/2014).


La CEDU condanna l'Italia
Nella sentenza del 5 dicembre 2019 (caso Scervino e Scaglioni contro Italia) la CEDU ha affrontato la questione della durata dei procedimenti in Italia e le controversie sulla corresponsione degli indennizzi dovuti alle vittime di processi troppo lunghi. Nella specie, la Corte non solo ha condannato l'Italia per un processo dinanzi al Tar Toscana durato oltre tredici anni, bensì ha pure respinto la dichiarazione unilaterale del Governo italiano che intendeva chiudere la vicenda col pagamento di un indennizzo. La CEDU, infatti, ha accertato che la dichiarazione unilaterale non avrebbe fornito una base sufficiente per garantire il rispetto dei diritti umani anche perché l'importo proposto per il danno morale era basso e non rapportato ai parametri individuati dalla Corte. Nella specie, due cittadini italiani avevano impugnato, nel 1998, dinanzi al TAR Toscana, un decreto di demolizione di opere realizzate abusivamente. Malgrado due istanze di fissazione dell'udienza presentate nel 2009, nulla era avvenuto. Così, i due ricorrenti si erano rivolti alla Corte di appello al fine di ottenere un indennizzo ex L. n. 89 del 2001. La Corte aveva accolto la domanda, ma la Cassazione aveva annullato la decisione in quanto i ricorrenti non avevano presentato un'istanza di prelievo, considerata come nuova condizione di ammissibilità per i ricorsi in base alla legge Pinto, secondo le modifiche introdotte dal d.l. n. 11 del 2008. Quindi i ricorrenti si sono rivolti alla Corte europea. Il Governo italiano aveva presentato una dichiarazione unilaterale con la quale aveva riconosciuto la violazione della Convenzione e concesso una riparazione che, come noto, deve essere adeguata: lo Stato italiano aveva previsto di liquidare i ricorrenti con una somma complessiva di 11mila euro, che includeva danni non patrimoniali e spese. Tale importo era stato giudicato dalle vittime insufficiente. Posizione condivisa da Strasburgo, secondo la quale l'importo non era "ragionevolmente rapportato agli importi accordati dalla Corte in casi analoghi" e, di conseguenza, la proposta del Governo non era stata accolta. Per l'effetto, se la violazione c'è stata e lo stesso Stato riconosce ciò proponendo una dichiarazione, non è poi ammissibile che il Governo proceda a non fare tutto il possibile per attenuare gli effetti della violazione. La questione riguardava la durata eccessiva del processo dinanzi al Tar, senza che vi fosse una giustificazione rintracciabile nella complessità della causa e, alla durata irragionevole del processo, si sono aggiunti gli ostacoli per ottenere l'indennizzo previsti dalla L. Pinto poiché col d.l. n. 112 del 2008 e il d.lgs. n. 104 del 2010 è stata inserita una nuova condizione di ammissibilità. A seguito delle violazioni seriali dell'articolo 6 della Convenzione che riconosce a ogni individuo la durata ragionevole del processo e dei numerosi ricorsi contro l'Italia a Strasburgo (e quasi automatiche condanne), l'Italia ha modificato l'articolo 111 della Costituzione introducendo il principio della durata ragionevole del processo (L. n. 2 del 1999). Poi è stata adottata la legge n. 89 del 2001 n. 89 (L. Pinto), modificata in diverse occasioni, molto spesso con l'individuazione di nuove condizioni per l'attivazione dei ricorsi. Tuttavia, in non poche occasioni, è emerso il problema dell'ineffettività del rimedio. A ciò si aggiunga che la Corte costituzionale, con la pronuncia del 6 marzo 2019 n. 34 ha sancito la contrarietà dell'articolo 54, comma 2, del d.lgs. n. 11 del 2008 all'articolo 117 della Costituzione con riguardo agli articoli 6 e 13 della Convenzione europea: per la Consulta, l'istanza di prelievo è un adempimento formale la cui violazione non può condurre alla sanzione di improponibilità della domanda di indennizzo. Con la sentenza n. 169 del 5 giugno 2019 la Corte costituzionale ha anche dichiarato l'illegittimità dell'articolo 2, comma 2-quinquies, lettera e), della legge n. 89 sull'improponibilità della domanda in assenza dell'istanza di prelievo relativa al processo penale troppo lungo.


L'effettività del ricorso secondo la legge Pinto
Il sistema introdotto con la legge n. 89/2001 è passato sotto i riflettori della Corte europea in molte occasioni, sia con riguardo ai processi penali e civili sia a quelli amministrativi. In tal modo, nella pronuncia del 5 dicembre 2019, sopra descritta, la CEDU ha verificato che il ricorso amministrativo messo a disposizione nell'ordinamento italiano non poteva essere considerato un ricorso effettivo nel senso dell'articolo 13 della Convenzione, disposizione in base alla quale ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella Convenzione siano stati violati "ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone agenti nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali". Circa la quantificazione degli importi dovuti alle vittime di processi troppo lunghi, nella sentenza del 5 dicembre 2019, uno dei punti centrali che hanno spinto la Corte a non accogliere la dichiarazione unilaterale dello Stato italiano che propendeva per la chiusura della vicenda indennizzando nel complesso i ricorrenti con 11mila euro, è stata appunto l'esiguità dell'indennizzo. La CEDU europea ha così quantificato diversamente l'equa riparazione per i danni non patrimoniali condannando lo Stato italiano a versare a ciascun ricorrente l'importo di 11.200 euro, e 1.000 euro per le spese.


L'equa riparazione per i danni subiti a causa dell'eccessiva durata della procedura fallimentare
Anche nel caso delle procedure fallimentari lo strumento è quello previsto, in generale per varie tipologie di processi ed esperibile a determinate condizioni, dalla Legge 24 marzo 2001 n. 89, nota come "Legge Pinto", che recepisce il principio sancito dall'art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), secondo cui «ogni persona ha il diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge». Sulla base di tale principio, il nostro ordinamento consente ai soggetti che siano danneggiati a causa dell'irragionevole durata del processo di chiedere, appunto, un'equa riparazione. Con riferimento alle procedure fallimentari l'art. 2, comma 2 bis della Legge Pinto, a seguito delle modifiche normative intervenute nel 2012, stabilisce che il termine "ragionevole" di durata si considera rispettato se la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni. Secondo la più recente giurisprudenza (Cass. Civ. 27 agosto 2018, n. 21200, secondo cui, in tema di equa riparazione, nei procedimenti fallimentari rileva come dies a quo l'effettiva ammissione al passivo e non la semplice domanda, pertanto, per i creditori che lamentano la lunghezza del procedimento fallimentare la data dalla quale calcolare la ragionevole durata, ai fini dell'indennizzo previsto dalla legge Pinto, è quella dell'ammissione al passivo e non della domanda), per i creditori tale termine decorre dalla data di ammissione al passivo. Ciò significa che se il fallimento ha una durata superiore ai sei anni, causando danni patrimoniali e/o non patrimoniali alle parti, si può chiedere un'equa riparazione presentando ricorso al Presidente della Corte d'Appello territorialmente competente, che provvede sulla domanda entro trenta giorni dal deposito del ricorso. Il ricorso deve essere depositato entro sei mesi dalla conclusione definitiva del procedimento che, nel caso del fallimento, coincide con il passaggio in giudicato del relativo decreto di chiusura. Una volta accertata l'irragionevole durata della procedura, tenuto conto, tra l'altro, della complessità del caso e del numero dei creditori, la misura dell'indennizzo oscilla tra euro 400,00 ed euro 800,00 per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi di durata. Circa le modalità di comunicazione, il giudice territoriale di Brescia (Corte Appello Brescia Civ., Sez. II, Decreto 2 dicembre 2019, n. 2801) ha precisato che, in merito alla contestazione sull'idoneità delle modalità di comunicazione adottate dal curatore, relativamente al decreto di chiusura della procedura fallimentare via PEC, a far decorrere il termine ex art. 4 della L. Pinto, l'art. 31-bis della L.F. si applica a tutte le procedure pendenti, avendo stabilito che i curatori invitassero entro il 30 giugno 2013 tutti i creditori e titolari di diritti di terzi sui beni a comunicare entro tre mesi l'indirizzo di PEC con avviso che, in caso d omissione, le comunicazioni sarebbero eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. L'esigenza di effettiva comunicazione del decreto di chiusura comprensivo di motivazione è finalizzata, pertanto, alla proposizione del reclamo ex art. 119, comma 3 della legge fallimentare e non alla domanda di equa riparazione del danno.
Estinzione del giudizio: sanzione a chi chiede l'indennizzo L. Pinto
3mila euro di sanzione per chi intenta una causa per l'equa riparazione fondata su un giudizio presupposto che non avrebbe dovuto iniziare per mancanza di interesse. La Cassazione, con la Sentenza n. 4973 del 2020 ha infatti rigettato il ricorso contro il versamento alla cassa delle ammende, per aver portato avanti una causa pur avendo già ottenuto ciò a cui si aspirava. La ricorrente aveva chiesto alla Corte d'appello l'equo indennizzo per l'ulteriore durata, a suo dire di quasi dieci anni, ancora non risarcito di un procedimento riassunto davanti al Tribunale e chiuso per estinzione del processo a causa della mancata riassunzione per difetto di giurisdizione. Per i giudici l'assenza di danno era evidente dall'esame degli atti. La pretesa era relativa al ritardo di un giudizio presupposto che non doveva essere iniziato per carenza di interesse: già tre anni prima della fine della causa, la ricorrente aveva ottenuto l'inquadramento dall'Inps nella categoria richiesta. Questo malgrado il disinteresse fosse scattato con la dichiarazione di estinzione. Per la Cassazione risulta applicabile la legge Pinto, nel testo introdotto dalla legge 208/2015 (articolo 2, comma 2 sexies, lettera c) che presume non esistente il pregiudizio che deriva dal processo lumaca, salvo prova contraria, nell'ipotesi di estinzione del processo per rinuncia o inattività delle parti (articoli 306 e 307 c.p.c.). Inutile per la ricorrente è stato obiettare che la condanna a 3mila euro fosse sproporzionata rispetto all'indennizzo chiesto e che la forbice prevista dalla norma, che va dai mille ai 10mila euro, rendesse gravoso l'accesso alla giustizia. La Cassazione ha precisato che il legislatore ha assegnato priorità alla repressione dell'abuso del processo, sanzionando sia chi inizia una causa pur non avendo in origine diritto all'equo indennizzo, sia chi propone ricorsi viziati da irregolarità non sanabili per colpa della parte. La sanzione appare coerente con lo scopo di disincentivare, senza automatismi, le pretese delle parti fatte valere, anche se temerarie o inosservanti delle norme processuali. Per la Corte di Cassazione l'introduzione del meccanismo potrebbe ridurre il carico delle corti territoriali consentendo una più sollecita e celere definizione delle controversie nelle quali venga fondatamente fatto valere il diritto al riconoscimento della violazione del termine di ragionevole durata del processo.


Considerazioni conclusive
A seguito delle modifiche operate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con la legge 7 agosto 2012, n. 134, c.d. "Decreto Sviluppo", il procedimento risulta articolato su due fasi, diversamente da quello antecedente di tipo esclusivamente contenzioso. In effetti, si ha una prima fase modellata sul procedimento di ingiunzione nella quale si richiede al ricorrente di provare che la non ragionevole durata non è dipesa dal comportamento dello stesso, bensì da quello della controparte o dell'organo giudicante. L'introduzione del momento processuale in parola si pone perfettamente in linea con il principio dell'economia processuale, giacché tale fase eventualmente può consentire al ricorrente di munirsi di un decreto esecutivo relativo alla somma che il Ministero convenuto è tenuto a risarcire. Ciò nondimeno occorrerà che il professionista presti molta attenzione, nel redigere il ricorso introduttivo, a valorizzare i comportamenti virtuosi del ricorrente, giacché questo si pone alla base del decreto che sarà emesso a conclusione della prima fase in parola. Diversamente, la fase successiva presenta una natura cautelare giacché ai sensi del nuovo art. 5 ter nn. 1 e 3 della legge Pinto la parte può presentare opposizione avverso il decreto che ha deciso, rigettando, la domanda di equa riparazione; in tal caso, la Corte d'Appello provvederà in linea con gli artt. 737 ss. del codice di rito. Secondo le Sezioni Unite (Cassazione Civ., 23 luglio 2019, n. 19883), in ambito di equa riparazione, non sussiste alcun pregiudizio per il creditore dello Stato, vittima di un processo durato oltre la ragionevole durata, che non propone la domanda di indennizzo entro sei mesi dalla fine del procedimento di cognizione che accerta il suo diritto. Il termine, nella sola ipotesi in cui il creditore è lo Stato, scatta, infatti quando il giudizio esecutivo è definitivo: le due fasi vanno considerate, infatti, come un'unica. Nel computo della durata del processo di cognizione, da considerare unitariamente ai fini dell'indennizzo, non va considerato come tempo del processo quello che passa tra la definitività della fase di cognizione e l'inizio dell'esecutiva: quest'ultimo può rilevare ai fini del ritardo nell'esecuzione come autonomo pregiudizio, attualmente indennizzabile in via diretta ed esclusiva dalla Cedu. Il termine di 120 giorni non produce effetti ai fini della ragionevole durata del processo esecutivo. Il giudizio di ottemperanza, promosso all'esito della decisione di condanna dello stato al pagamento dell'indennizzo, va considerato equiparabile al procedimento esecutivo.