Rugby, no alla risarcibilità se l’azione violenta rientra nei limiti del rischio consentito
Il rugby è uno sport a "violenza eventuale", il quale prevede un contatto fisico inevitabile tra i giocatori, che può portare al rischio di lesioni o addirittura nei casi più gravi anche alla morte. Le condotte degli atleti che provocano tali conseguenze possono essere perseguite in sede penale o civile soltanto laddove esse superino i limiti del "rischio consentito", ovvero impiegando un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, del contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto o con la qualità delle persone che vi partecipano. Questo è quanto emerge dalla sentenza n. 1148/2019 del Tribunale di Ravenna.
I fatti - La vittima era un ex giocatore di rugby ritiratosi da tempo dall'attività agonistica, il quale dopo diversi anni per la prima volta si era recato presso un impianto sportivo per allenarsi con la squadra dilettantistica della città, composta da ex rugbisti professionisti, da giocatori amatoriali e neofiti di età diverse e di caratura tecnica differente. Dopo l'allenamento si era svolta la consueta partitella, per la quale vi erano regole specifiche con esclusione di azioni di gioco ad alto impatto, come ad esempio la ruck e il placcaggio. Durante la partitella, l'uomo si allontanava dall'area di gioco dicendo di stare male, per poi alcuni minuti dopo perdere i sensi ed essere trasportato in ospedale, dove purtroppo avveniva il suo decesso.
In seguito, la moglie citava in giudizio i responsabili dell'associazione sportiva per ottenere da essi un risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per la scomparsa del marito, causata da un trauma cranico, come riscontrato dall'autopsia. Per il Tribunale, tuttavia, per quanto singolare e sfortunata sia stata la vicenda, non sussiste una responsabilità civile imputabile a qualcuno per il decesso avvenuto.
Il rischio consentito - Il giudice richiama sul punto l'orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo cui il rugby, così come il calcio, è uno sport che «per modalità di svolgimento prevede una cosiddetta "violenza eventuale" ovvero è uno sporto nel quale «la violenza non coincide con l'attività sportiva praticata ma ove il contatto fisico è inevitabile e il rischio di lesioni è alto qualora non si rispettino le prescrizioni regolamentari ovvero si superino i limiti del "rischio consentito" impiegando cioè un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, del contesto ambientale nel quale l'attività sportiva si svolge in concreto o con la qualità delle persone che vi partecipano».
Ciò posto, nella fattispecie, come emerso dall'istruttoria, non vi è stata alcuna azione violenta tale da superare il rischio consentito e lo stessa vittima era un giocatore esperto, seppur da anni lontano dai campi di gioco, e certamente consapevole delle regole e dei rischi del gioco del rugby agonistico e amatoriale. D'altra parte, nota il Tribunale, lo stesso trauma cranico potrebbe essere derivato anche da una caduta accidentale sul terreno di gioco ovvero «da un contatto fisico rientrante comunque nelle regole proprie del gioco del rugby od in ogni caso nell'ambito del rischio consentito in di tale tipo di sport "a violenza eventuale"».
In definitiva, conclude il giudice, non sussiste alcuna prova che le lesioni che hanno provocato la morte dell'uomo «siano conseguenza diretta ed immediata della violazione di regole tecniche della disciplina del rugby ovvero di un uso spropositato della forza in rapporto al tipo di sport praticato».
Tribunale di Ravenna – Sezione civile - Sentenza 12 novembre 2019 n. 1148