Deve risarcire il danno l’avvocato che negli scritti difensivi offende il collega
Per la Corte di appello di Potenza sono punibili le espressioni ingiuriose non collegate o esorbitanti rispetto all’oggetto della causa
L’avvocato che nei propri scritti difensivi travalica il linguaggio ammesso per contestare le tesi difensive avverse, offendendo il collega con un tenore che supera il limite della continenza, è tenuto a risarcire i danni. A stabilirlo è la Corte di appello di Potenza, sezione civile (presidente Roberto Spagnuolo, estensore Adele Apicella, consigliere Aida Sabbato), con la sentenza 716/2020, depositata il 23 dicembre 2020. I giudici di Potenza rilevano che «rimangono pur sempre punibili quelle espressioni ingiuriose o diffamatorie che non si trovino in rapporto con l’oggetto della causa, che siano estranee o esorbitanti rispetto a esso».
Tutto ha inizio con due atti di citazione in opposizione a precetto nei quali un avvocato nel proprio scritto difensivo ha usato, rivolgendosi al collega avversario, l’espressione «fraudolentemente». Il giudice di pace competente ha disposto la cancellazione delle espressioni offensive, in base all’articolo 89 del Codice di procedura civile.
Il difensore verso il quale sono state pronunciate le parole sconvenienti ha citato innanzi al Tribunale di Melfi (soppresso nel 2013 e accorpato a quello di Potenza) il collega per ottenere il risarcimento dei danni morali, materiali e patrimoniali. L’azione risarcitoria è stata esperita tanto verso l’avvocato quanto verso i suoi due assistiti.
Nel 2011 il Tribunale di Melfi, con la sentenza 359, ha accolto la domanda risarcitoria dell’avvocato offeso e ha condannato l’altro difensore a pagare l’importo di cinquemila euro. È stata inoltre disposta la pubblicazione del dispositivo della sentenza su un quotidiano locale con compensazione delle spese processuali tra le parti. Per il Tribunale, infatti, non opera la scriminante prevista dall’articolo 598 del Codice penale per le offese in scritti destinati alle autorità giudiziarie perché «il tenore degli atti eccedeva il limite della continenza e non era ravvisabile il necessario nesso di funzionalità tra le espressioni utilizzate e le esigenze difensive delle parti».
Contro la sentenza 359 del soppresso Tribunale di Melfi è stato proposto appello da parte dell’avvocato condannato. La Corte di appello di Potenza ha evidenziato che «la lite giudiziaria deve svolgersi correttamente, con una condotta sempre ispirata a lealtà e probità nel reciproco rispetto».
I giudici hanno poi affrontato il tema della competenza. «Competente - scrivono - ad accertare e liquidare il danno derivante dall’uso di espressioni offensive contenute negli atti del processo, ai sensi dell’articolo 89 del Codice di procedura civile, è di norma lo stesso giudice dinanzi al quale si svolge il giudizio nel corso del quale sono state usate le suddette espressioni». Si tratta di un chiarimento significativo, considerato che il giudice di pace si è espresso per primo per la cancellazione delle espressioni offensive. «Poiché - si evidenzia - la responsabilità processuale ha natura analoga a quella aquiliana e, quindi, l’antigiuridicità dei comportamenti non si esaurisce nell’ambito del processo, la giurisprudenza di legittimità è ormai da tempo consolidata nel senso di ammettere, in un ristretto numero di casi, che la domanda risarcitoria, di cui all’articolo 89 del Codice di procedura civile, venga proposta non nello stesso giudizio, ma in un giudizio diverso, secondo le ordinarie regole di competenza». Tra queste rientra l’ipotesi - che ricorre nel caso esaminato - in cui la domanda sia avanzata nei confronti non della parte ma del suo difensore.
La Corte di appello di Potenza ha quindi confermato la sentenza del Tribunale di Melfi e ha condannato la parte soccombente a pagare le spese processuali.