Civile

Lavoro dipendente, la retribuzione non può mai essere ridotta

immagine non disponibile

di Francesco Machina Grifeo

Il datore di lavoro non può ridurre la retribuzione assegnata al dipendente al momento dell'assunzione neppure a seguito di uno specifico accordo. Lo ha stabilito la Sezione lavoro del Tribunale di Milano, sentenza 18 febbraio 2015 n. 440, richiamando il principio dell'«irriducibilità della retribuzione», dettato dall'articolo 2103 del codice civile.

La vicenda - L'ultimo giorno prima della scadenza del periodo di prova, un neoassunto con mansioni di “capo ricevimento” presso una struttura alberghiera aveva assentito alla proposta di riduzione dello stipendio per trecento euro al mese. Dopo qualche tempo il datore aveva ridotto ulteriormente gli emolumenti del dipendente e infine lo aveva licenziato «per giustificato motivo oggettivo» consistente, a suo dire, nella «diversificazione dell'organizzazione all'interno del reparto e insostenibilità dei costi, con impossibilità di adibizione ad altre mansioni». A questo punto l'impiegato si è rivolto al tribunale del lavoro.

Il principio - La sentenza, in primis, affronta la questione della riduzione degli emolumenti, ritenendo fondata «la domanda di pagamento delle somme non corrisposte, rispetto alla paga base contrattuale, in virtù dell'accordo di riduzione dello stipendio e della successiva unilaterale riduzione operata dalla parte datoriale». Infatti, rifacendosi ad un precedente di Cassazione (n. 11362/2008), spiega che «il principio dell'irriducibilità della retribuzione, dettato dall'articolo 2103 c.c. implica che la retribuzione concordata al momento dell'assunzione non è riducibile neppure a seguito di accordo tra il datore di lavoro e il prestatore di lavoro e ogni patto contrario è nullo in ogni caso in cui il compenso pattuito anche in sede di contratto individuale venga ridotto».
Unicamente in caso di esercizio dello “ius variandi”, prosegue, «la garanzia dell'irriducibilità della retribuzione si estende alla sola retribuzione compensativa delle qualità professionali intrinseche essenziali delle mansioni precedenti, ma non a quelle componenti della retribuzione che siano erogate per compensare particolari modalità della prestazione lavorativa» . Ciò detto, non risultando alcun esercizio dello ius variandi, «la retribuzione contrattuale dovrà essere corrisposta per intero, risultando nulli i patti conclusi in corso di causa ai sensi dell'art. 2103 c.c. e 2113 c.c. ». Inoltre, prosegue il tribunale, anche il licenziamento va dichiarato illegittimo in quanto le allegazioni della società «appaiono di tale genericità da non consentire alcuna verifica giudiziale», non avendo indicato «alcun dettaglio in ordine alla consistenza ed insostenibilità dei costi, ai tratti caratteristici della diversificazione dell'organizzazione interna ed all'impossibilità di adibizione del ricorrente ad altre mansioni».
Se è vero infatti che nella nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, rientra anche «l'ipotesi del riassetto organizzativo dell'azienda attuato al fine di una più economica gestione» (Cass. n. 11465/2012), che può essere deciso autonomamente ed insindacabilmente dall'imprenditore (articolo 41 della Costituzione), va anche detto che per il datore non è sufficiente evocare una «incontrovertibile crisi aziendale» senza documentarla in alcun modo.

Tribunale di Milano - Sezione lavoro - Sentenza 18 febbraio 2015 n. 440

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©