Professione e Mercato

Moda ed economia circolare: Second hand, Upcycling e l'ombra della contraffazione

Con la crescente consapevolezza degli effetti disastrosi del settore sull'ambiente, il business del second hand è destinato inevitabilmente ad espandersi. I brand devono coesistere con questo mercato e rendere il proprio sistema di produzione e distribuzione più conforme ai fattori ESG ripensando i loro modelli di business

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di Daniela Della Rosa*

A due anni dall'inizio della pandemia, l'industria della moda sta attraversando una fase di cambiamento guidato dalla "Strategia dell'Unione Europea per il tessile sostenibile" e dalle normative di ciascun Paese in risposta al Green Deal.

Con la crescente consapevolezza degli effetti disastrosi del settore sull'ambiente, il business del second hand è destinato inevitabilmente ad espandersi. I brand devono coesistere con questo mercato e rendere il proprio sistema di produzione e distribuzione più conforme ai fattori ESG ripensando i loro modelli di business.

Alcuni marchi stanno già investendo volontariamente in una catena di approvvigionamento e in un sourcing più sostenibile, così come nell'upcycling, per limitare le elevate emissioni di anidride carbonica, gli ingenti consumi di acqua, l'utilizzo di coloranti inquinanti e la produzione di tonnellate di rifiuti.

I consumatori, in particolare le generazioni più giovani, stanno diventando sempre più consapevoli dell'enorme impatto ecologico dell'industria del (fast) fashion e si aspettano che i brand assumano impegni di sostenibilità concreti e tangibili. Anche le autorità legislative si stanno muovendo in tal senso, emanando normative finalizzate alla promozione dell'economia circolare.

La Francia, per esempio, è stato il primo Paese a prevedere nel settore della moda la responsabilità estesa del produttore (REP), uno dei temi cardine della strategia dell'UE per i prodotti tessili sostenibili e circolari.

Il mercato del second hand della moda da tempo costituisce il principale alleato nella lotta agli sprechi del mondo del fashion, rappresentando una scelta "verde" che sempre più consumatori vogliono intraprendere. Secondo il Circular Fashion Report 2020, il mercato della moda circolare ha un potenziale valore di 5 trilioni di dollari, il 63% in più rispetto all'industria della moda tradizionale. Inoltre, secondo una ricerca condotta dal Boston Consulting Group e Vestiaire Collective, il mercato dell'abbigliamento di seconda mano potrebbe crescere del 15-20% entro cinque anni, mentre il 31% degli intervistati afferma di rivendere già i vestiti che non indossa più attraverso negozi di seconda mano o app dedicate (come Vinted, Depop, Vestiaire Collective stesso, Subito o eBay).

Sebbene l'acquisto di prodotti di seconda mano non sia una novità, ciò che è cambiato è il modo in cui i brand e i consumatori vi si avvicinano. Prima della digitalizzazione, ciò comportava un'attenta ricerca per trovare il negozio con i capi ed accessori migliori, mentre con l'arrivo delle piattaforme digitali l'accesso agli articoli "pre-loved" è a portata di click.

Per i brand, soprattutto di lusso, il mondo dell'usato rischia però di incoraggiare la diffusione di prodotti contraffatti: in assenza di un controllo diretto da parte dei brand dei propri canali di acquisto, la possibilità che i consumatori acquistino prodotti contraffatti di seconda mano aumenta notevolmente, a causa del fatto che la normale usura dei prodotti potrebbe offuscare il confine tra prodotti originali e contraffatti.

Cosa Dice la Legge? Cosa può fare il proprietario (o il licenziatario) di un marchio se un terzo non autorizzato rivende prodotti con il suo marchio su una piattaforma online? L'articolo 9, par. 3 del Regolamento (UE) 2007/1001 e l'articolo 5 del Codice della Proprietà Industriale italiano (Decreto Legislativo 10 febbraio 2005, n. 30, "DPI") stabiliscono il principio generale di "esaurimento" dei diritti di proprietà industriale.

Per quanto riguarda i marchi, questo principio rappresenta un limite all'esclusività concessa al titolare del marchio: il diritto esclusivo si esaurisce dopo che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare - o con il suo consenso (ad esempio, dal licenziatario) - nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo.

L'esclusiva è quindi limitata al primo atto di immissione in commercio, mentre nessuna esclusiva potrà essere successivamente rivendicata dal titolare del marchio in relazione alla circolazione del prodotto recante il marchio. Il principio dell'esaurimento del marchio non si applica, tuttavia, se "sussistono motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all'ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio" (cfr. art. 5, comma 2 IPC).

La Corte di giustizia europea, nella sentenza C-567/18 del 2 aprile 2020, ha confermato indirettamente che le piattaforme che partecipano alla distribuzione o alla rivendita diretta di prodotti che violano i diritti di proprietà intellettuale sono direttamente responsabili di tali violazioni. La giurisprudenza comunitaria ha confermato che l'esistenza di una rete di distribuzione selettiva, tipicamente adottata nel mondo della moda, soprattutto per profumi e gioielli, può rientrare tra i "motivi legittimi" che impediscono l'esaurimento, purché il prodotto commercializzato sia un articolo di lusso o di prestigio che giustifichi la scelta di adottare tale sistema di distribuzione selettiva. In presenza di tali motivi legittimi, da valutare caso per caso, la rivendita di prodotti recanti il marchio può quindi trasformarsi in una violazione dello stesso. Questo è quanto è emerso dall'ordinanza del 19 ottobre 2020 del Tribunale di Milano.

*a firma di Daniela Della Rosa, Avvocato, partner di Curtis Milano, Co-Director e Adjunct Professor del Master LUISS in Fashion and Luxury management

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