Comunitario e Internazionale

Parità salariale, il datore deve provare di non discriminare

Una direttiva Ue impone regole e trasparenza per colmare il divario tra uomini e donne. Gli Stati dovranno anche assicurare appalti o concessioni inclusive

di Marina Castellaneta

Colmare il divario salariale tra uomini e donne attraverso la trasparenza retributiva e regole procedurali che facciano ricadere l’onere della prova sul datore di lavoro che, se citato in giudizio per violazione della parità retributiva, sarà tenuto a dimostrare l’insussistenza della discriminazione retributiva diretta o indiretta.

È quanto si propone la direttiva 2023/970 pubblicata sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 17 maggio (serie L 132).

L’atto Ue, funzionale a rafforzare «l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva e i relativi meccanismi di applicazione» segna una svolta perché, oltre al dovere di trasparenza, è previsto un obbligo di intervento delle aziende Ue quando il divario retributivo supera il 5 per cento. Non solo. Il testo apre le porte al risarcimento delle vittime di discriminazione retributiva e cerca di garantire effettività con la previsione di un sistema sanzionatorio effettivamente dissuasivo per i datori di lavoro.

Prevista, dall’articolo 24, anche una diretta incidenza sugli appalti perché gli Stati membri dovranno assicurare che, nell’esecuzione di appalti pubblici o concessioni, gli operatori economici rispettino gli obblighi sulla parità di retribuzione.

La direttiva fissa prescrizioni minime al di sotto delle quali non è possibile andare, ma permette agli Stati interventi migliorativi per raggiungere l’obiettivo della parità di retribuzione.

I numerosi atti adottati dall’Unione e, in particolare, la direttiva 2006/54 sull’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego (recepita in Italia con il decreto legislativo 5/2010) hanno sicuramente dato una spinta nella giusta direzione, ma resta il fatto che le donne guadagnano in media il 13% in meno rispetto ai colleghi uomini e che il divario retributivo di genere «è rimasto sostanzialmente immutato nell’ultimo decennio». Con ulteriori effetti negativi, perché espone le donne a un maggiore rischio di povertà e contribuisce al divario pensionistico.

La direttiva introduce il principio della trasparenza retributiva prima ancora dell’assunzione, prevedendone l’applicazione anche per i candidati a un impiego.

Per quanto riguarda l’ambito di applicazione, la direttiva è rivolta ai datori di lavoro del settore pubblico e privato e a tutti i lavoratori che hanno un contratto o un rapporto di lavoro secondo quanto stabilito da ciascuno Stato membro alla luce, però, della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Nucleo centrale della direttiva è il capo II dedicato alla trasparenza retributiva sia prima dell’assunzione sia nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa, incidendo così anche sui criteri per la progressione economica.

I datori di lavoro dovranno indicare i criteri utilizzati per determinare la retribuzione, i livelli retributivi e la progressione economica, con la possibilità, per gli Stati membri, di esonerare i datori di lavoro con meno di 50 dipendenti per il solo aspetto della progressione economica. Le imprese con più di 250 dipendenti saranno tenute a presentare, ogni anno, una relazione sul divario retributivo di genere, mentre le aziende più piccole dovranno adempiere ogni tre anni.

Il diritto alla parità della retribuzione, oltre ad essere attivabile in sede giurisdizionale, se leso, fa scattare il diritto al risarcimento o alla riparazione. Spetta però agli Stati stabilire le modalità di attuazione che devono produrre un effetto dissuasivo ed essere proporzionate.

Va assicurato, in ogni caso, il recupero integrale delle retribuzioni arretrate e i bonus o i pagamenti in natura, il risarcimento per le opportunità perse e per il danno immateriale. Gli Stati dovranno anche introdurre norme che impediscano di vittimizzare coloro che esercitano i propri diritti nei confronti del datore di lavoro.

La direttiva dovrà essere recepita entro il 7 giugno 2026.

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