Quesiti referendari, sostenibilità ed altri rimedi alla prova del “paradosso dei capi filiera”
Il superamento del paradosso richiede un cambio di paradigma culturale e sociale, che non insegua la norma, ma ne sia promotrice, anzi, anticipatrice, attraverso forme di cooperazione tra imprese, lavoratori e altri stakeholder, comprese le organizzazioni sindacali
Il mercato del lavoro italiano vive da sempre un rapporto controverso con i processi di decentralizzazione produttiva (le cosiddettesupply chains), che, da un lato, costituiscono una realtà ormai imprescindibile e strutturale, e, dall’altro, fungono da cartina tornasole dello stato di salute – a ben vedere non eccellente – delle condizioni di lavoro lungo le filiere produttive.
Ciò impone una profonda riflessione sul ruolo dei committenti appaltanti delle filiere per comprenderne, prima di ulteriori interventi normativi, la realtà ed il ruolo, spesso controverso, nel mondo imprenditoriale.
In questo contesto, la recente proposta di referendum abrogativo, che si propone di attuare interventi normativi per alcuni versi (apparentemente) dirompenti per il mondo del lavoro, include la proposta di modifica dell’art. 26, comma 4, del D.lgs. 81/2008 in materia di salute e sicurezza sul lavoro, che comporterebbe l’estensione dell’attuale regime di solidarietà tra committenti, appaltatori e subappaltatori anche per i danni occorsi ai lavoratori derivanti da rischi connessi alle attività specifiche delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.
Il nuovo testo dell’art. 26, comma 4, in caso di vittoria del referendum, potrebbe ridefinire, indirettamente, anche il perimetro degli oneri di vigilanza e controllo in capo ai committenti, ben oltre i canonici termini ad oggi vigenti, che richiederebbero una conoscenza, decisamente più capillare, dei processi organizzativi e dei rischi propri del business degli appaltatori e subappaltatori.
L’intento del quesito referendario sembra cavalcare l’onda del nuovo trend normativo, di matrice nazionale e comunitaria, che si propone di rispondere al fuoco incrociato dei casi di cronaca, dei dati crescenti degli infortuni sul lavoro e degli interventi, sempre più penetranti e trasversali, della magistratura nel mondo degli appalti.
La risposta (teoricamente) perfetta al problema dell’esigenza di rafforzare le tutele per i lavoratori delle filiere sembrerebbe l’estensione della posizione di garanzia dell’attore contrattualmente ‘forte’, il capo filiera appunto, al limite della responsabilità oggettiva, in modo da allocare, a qualsiasi costo, i costi e rischi delle storture del processo di esternalizzazione.
Il nostro ordinamento non è nuovo a questa tipologia di interventi normativi sospinti dal vento emergenziale, che, tuttavia, spesso rischiano di ottenere l’effetto opposto a quanto perseguito, poiché figli di una carente comprensione del fenomeno.
Guardando ai recenti interventi di riforma della normativa in materia di appalti, occorre citare le modifiche all’art. 29 del D.lgs. 276/2003, che ha ripristinato la rilevanza penale della interposizione ed appalto illecito e, facendo eco alla previsione dell’art. 11 del D.lgs. 36/2023 in materia di appalti pubblici, ha introdotto nuovi vincoli in materia di trattamento economico-normativo di fonte collettiva applicato ai lavoratori della filiera, la cui portata applicativa è ancora in corso di metabolizzazione nel sistema delle relazioni industriali.
Così come la novella all’art. 27 del D.lgs. 81/2008, in materia di qualificazione delle imprese, che ha innovato la complessa disciplina della patente a crediti nell’edilizia, i cui contorni interpretativi, per alcuni versi, sono ancora oscuri.
Di contro, a fronte di un progressivo arretramento del confine storico che separa i committenti e le proprie prerogative ed obblighi da quelli degli altri attori della filiera, la giurisprudenza e gli organi ispettivi, rimarcano, a più riprese, la centralità del famigerato ‘rischio d’impresa’ in capo agli appaltatori per la qualificazione della genuinità dell’appalto stesso.
Sullo sfondo, il complesso delle normative europee in materia di sostenibilità che intervengono anche sul tema della rendicontazione e due diligence lungo la catena del valore, tra cui le direttive cd. CS3D e CSRD, quest’ultima già recepita in Italia dal D.lgs. 125/2024, nonché il Regolamento CBAM in materia di meccanismi di aggiustamento del carbonio alle frontiere, nell’ambito della strategia comunitaria verso il Green Deal.
In questo caso il condizionale è d’obbligo, alla luce della recente adozione da parte della Commissione Europea del cd. pacchetto Omnibus, che modificherebbe tempi e modalità attuative delle stesse normative e ne ridurrebbe significativamente la platea delle imprese direttamente ed indirettamente impattate (si stima di circa l’80%), diluendo alcuni standard di sostenibilità e ridimensionando gli oneri di rendicontazione e due diligence anche rispetto alla catena del valore.
Tale “paradosso dei capi filiera”, da un lato garanti e responsabili, a prescindere, per la propria filiera e, dall’altro, posti davanti allo spettro del superamento del confine sottile, talvolta impalpabile, tra coordinamento ed etero-direzione, ristabilisce di fatto in capo ai committenti l’arduo compito di trovare un bilanciamento tra forme di intrusione e controllo ‘gentile’ lungo le filiere e l’adozione di articolati strumenti di protezione dall’imponderabilità delle decisioni ed interpretazioni degli organi ispettivi e giudicanti.
A ben vedere, il superamento di questo paradosso richiederebbe un cambio di paradigma culturale e sociale, che non insegua la norma, ma ne sia promotrice, anzi, anticipatrice, attraverso forme di cooperazione tra imprese, lavoratori e altri stakeholder, comprese le organizzazioni sindacali, volte alla valorizzazione del ruolo strategico dei capi filiera, per garantire competitività, sostenibilità e tutele effettive dei lavoratori.
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*Massimiliano Biolchini, Tiziana de Virgilio, Baker McKenzie