Casi pratici

Il diritto di critica del lavoratore, tra limiti condizionanti e prerogative di esercizio

La particolare posizione del lavoratore nell'esercizio del diritto di critica

di Paolo Patrizio

la QUESTIONE
Esiste un diritto di critica del lavoratore? Quali sono le condizioni che ne legittimano l'esercizio? Quali sono i limiti che il lavoratore deve rispettare e quali le conseguenze in caso di superamento?

Diritto di critica del lavoratore quale espressione del diritto di manifestazione del pensiero
L'art. 21 della Costituzione riconosce a ogni cittadino il «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», rinvenendosi, in tal senso, nell'espressione critica, una particolare forma di manifestazione riflessiva, volta alla contestazione, anche aspra, dell'altrui condotta, nell'ambito del bilanciamento collettivo delle libertà dei consociati. Il diritto di manifestazione del pensiero e, quindi, anche di critica, è riconosciuto ai lavoratori dall'art. 1 dello Statuto dei lavoratori, a norma del quale questi «hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge».


Quando il diritto di critica costituzionalmente garantito si esercita, tuttavia, in relazione e nel contesto della vicenda lavorativa in essere tra le parti, lo stesso risente di una tensione sollecitativa contrastante che ne determina, per un verso, la possibilità di estensione massima nell'ambito del generale rapporto dialettico endoaziendale che connota la relazione lavorativa; ma ne comporta, per altro verso, una certa compressione nella manifestazione esterna, rispetto al comune cittadino o al giornalista, tenuto conto del vincolo fiduciario che connota il rapporto di lavoro. Compressione, peraltro, destinata ad accentuarsi man mano che si sale nella scala gerarchica occupata dal dipendente e, dunque, nel grado di contiguità che quest'ultimo ha con il datore di lavoro.
La particolare attenzione rivolta alle dichiarazioni rese all'esterno dal lavoratore si spiega, invero, in ragione del fatto che, dal momento in cui è assunto alle dipendenze di un'impresa, il lavoratore entra direttamente a contatto con dati e fatti inerenti alla vita dell'azienda non altrimenti conoscibili all'esterno. È evidente, pertanto, che la manifestazione da parte di uno o più lavoratori di un giudizio critico in merito, ad esempio, ai prodotti o ai servizi offerti dall'azienda o alla gestione della stessa, è di per sé suscettibile di provocare delle conseguenze negative per il datore di lavoro, proprio e soprattutto in considerazione della maggiore attendibilità attribuita dall'esterno a valutazioni che provengono direttamente da soggetti con una specifica conoscenza dell'organizzazione aziendale.

I limiti del diritto di critica del lavoratore
Il limite, cd. esterno, di soddisfacimento di un interesse giuridicamente rilevante
Come per qualsiasi cittadino, anche per il lavoratore il diritto di esprimere il proprio pensiero in forma critica non consente di per sé la violazione di altri beni costituzionalmente garantiti. Tuttavia, tale lesione può considerarsi giustificata quando la critica sia ragionevolmente e prudentemente ordinata al soddisfacimento di interessi di rilievo (sul piano giuridico) almeno pari a quello del bene leso. Ciò significa che il fine in funzione del quale la critica è svolta deve essere attentamente considerato dal giudice ai fini del contemperamento degli interessi coinvolti, potendo configurarsi come una causa di giustificazione o una discriminante rispetto a una condotta del lavoratore, in ipotesi, offensiva. In altri termini, applicando la regola del "bilanciamento degli interessi", si deve innanzitutto verificare, caso per caso, se, in concreto, la critica del lavoratore sia finalizzata alla salvaguardia di un interesse o di un bene giuridicamente riconosciuto e di pari (o superiore) dignità rispetto all'interesse del datore di lavoro a non essere screditato.
Diverse, infatti, sono le finalità che il lavoratore potrebbe voler perseguire con l'esercizio del diritto di critica. Tale diritto, ad esempio, esercitato in un contesto conflittuale, potrebbe assumere una funzione rivendicativa e, pertanto, convertirsi in uno strumento di persuasione, analogo allo sciopero, per il conseguimento di obiettivi collettivi. Con la critica il lavoratore potrebbe, altresì, perseguire una funzione di denuncia attraverso la diffusione, all'interno e/o all'esterno dell'impresa, di informazioni in merito a irregolarità, anomalie o anche condotte illecite imputabili all'imprenditore, con lo scopo di ottenere l'eliminazione delle medesime. Infine, con l'esercizio del diritto di critica il lavoratore potrebbe perseguire una funzione di cooperazione, manifestando un dissenso costruttivo attraverso cui migliorare l'organizzazione dell'attività e la qualità della produzione dell'impresa. Funzione, quest'ultima, che la giurisprudenza ha spesso richiamato, sottolineando che denunciare con adeguata risonanza inadempienze, omissioni o anche comportamenti sospetti o apertamente illegali nella conduzione aziendale, lungi dal configurare un abuso del diritto di critica, può anzi giovare all'interesse della produzione.
Proprio in ragione della specifica funzione perseguita dal lavoratore nell'esercizio del diritto di critica, in giurisprudenza si è ritenuta ad esempio legittima, in quanto finalizzata al perseguimento dell'interesse generale alla salute e al miglioramento dei servizi pubblici, la critica espressa da alcuni dipendenti di una clinica privata, che avevano accusato il datore di lavoro di inefficienze, sperpero e di porre a repentaglio l'incolumità dei pazienti. È stata altresì ritenuta legittima, in quanto finalizzata al perseguimento di interessi collettivi meritevoli di tutela, la critica espressa da alcuni lavoratori, che con una lettera rivolta ai vertici aziendali avevano manifestato solidarietà nei confronti di un collega sottoposto a procedimento disciplinare e allo stesso tempo denunciato una situazione lavorativa di malessere e disagio diffusi, con l'intento di sollecitare un intervento risolutivo da parte della direzione. Così come è stata ritenuta legittima la condotta di un lavoratore che, nella sua veste di dirigente sindacale, aveva indirizzato ai membri del consiglio di amministrazione dell'azienda datrice di lavoro una lettera contenente giudizi negativi in merito all'operato del direttore generale. Al contrario, la giurisprudenza ha ritenuto ad esempio illegittimo il comportamento di un dipendente che nell'ambito di una riunione all'interno dell'azienda aveva accusato (falsamente) il direttore generale di aver causato la crisi dell'impresa, al fine di provocare la sua sostituzione.

Il primo dei limiti cd. interni al diritto di critica: la continenza sostanziale
A rendere lecito l'esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore non è sufficiente che lo stesso sia finalizzato al perseguimento di un interesse giuridico rilevante, tale da rendere giustificabile la lesione dell'interesse del datore di lavoro alla tutela della sua reputazione o immagine. In altre parole, le buone intenzioni del lavoratore di perseguire il soddisfacimento di interessi (individuali o collettivi) meritevoli di tutela non sono sufficienti a legittimare, in termini assoluti, qualsivoglia manifestazione di pensiero.
Se anche risulti in astratto rispettato il suddetto "limite esterno", infatti, il diritto di critica del lavoratore deve essere comunque esercitato nel rispetto del limite della cd. "continenza sostanziale", in virtù del quale i fatti narrati suscettibili di arrecare danno alla reputazione e all'immagine dell'azienda, devono corrispondere a verità, cioè a fondamentali criteri di veridicità e obiettività. Il lavoratore deve, quindi, astenersi da formulare accuse avventate, soppesando l'effettiva consistenza degli elementi in proprio possesso prima di dare pubblica risonanza a presunte o reali responsabilità che valgono a screditare l'immagine del datore di lavoro e sono suscettibili di provocargli un danno economico. In tale contesto, il metro di valutazione, generalmente adottato dalla giurisprudenza per verificare la sussistenza di tale requisito nell'esercizio del diritto di critica, viene ancorato al requisito della riscontrabilità esterna delle affermazioni, ossia alla possibilità del lavoratore di dimostrare quanto affermato, non ammettendosi, tuttavia, né verità putative, né verosimiglianze o mere presunzioni di attendibilità delle notizie divulgate.
La Corte di Cassazione, infatti, ha ravvisato la violazione del principio di continenza sostanziale nella condotta di alcuni dipendenti che avevano denunciato alla stampa la giacenza incontrollata in azienda e in luogo accessibile a tutti di sostanze radioattive, circostanza rivelatasi poi insussistente. Medesima violazione è stata ravvisata nella condotta di un dipendente che, nel corso di una serie di interviste a organi di stampa, aveva accusato l'azienda di aver favorito, per l'esecuzione di alcuni appalti, l'infiltrazione di ditte irregolari e "in odore di mafia", circostanza rimasta poi priva di adeguati riscontri probatori. Parimenti violativo del limite della continenza sostanziale, infine, è stato ritenuto il caso di verità incompleta, essendo stato dichiarando illecito il comportamento di un dipendente che aveva pubblicamente accusato l'azienda di versare in discarica rifiuti speciali, senza riferire che l'operazione era stata debitamente autorizzata dalle competenti autorità amministrative.

Il secondo dei limiti cd. interni al diritto di critica: la continenza formale
La legittimità della critica del lavoratore soggiace, altresì, al limite della cd. continenza formale, che impone al dipendente il ricorso alla formulazione di opinioni ed espressioni che, anche se polemiche, siano rapportate ai parametri di correttezza e civiltà desumibili dalle fondamentali regole del vivere civile. In buona sostanza, il lavoratore non solo deve astenersi da accuse avventate, soppesando l'effettiva consistenza e veridicità degli elementi in suo possesso, ma deve esprimere il suo pensiero, seppure critico, con moderazione, nel senso che la critica deve in ogni caso rispettare forme linguistiche, scritte o verbali, corrette, che non sfocino in espressioni inutilmente denigratorie o diffamatorie rispetto allo scopo perseguito.
Inizialmente, la Corte di Cassazione, nel delineare il limite della continenza formale, aveva applicato alla specifica fattispecie della critica espressa nell'ambito del rapporto di lavoro regole e principi già elaborati, in termini generali, per il diritto di cronaca del giornalista. A tale ricostruzione la giurisprudenza successiva ha, però, apportato dei correttivi, attenuando il requisito della continenza formale e ritenendo consentito, in quanto connaturato alla critica, l'espressione del proprio giudizio anche con locuzioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite alla persona cui sono riferite.
Nell'esercizio del diritto di critica la giurisprudenza ammette, quindi, toni aggressivi o di aperta disapprovazione, purché con le sue affermazioni il lavoratore non superi il limite della leale chiarezza, richiedendosi un'esposizione di fatti e opinioni formalmente contenuta e misurata, ovverosia non solo priva di espressioni apertamente e gratuitamente offensive, ma anche di artifizi linguistici finalizzati, sia pure indirettamente, a screditare il datore di lavoro.
Secondo la giurisprudenza, acquistano rilievo, in tale prospettiva:
a) il ricorso al sottinteso sapiente, finalizzato a far filtrare un significato diverso e ulteriore rispetto al senso letterale dell'espressione utilizzata, nella consapevolezza che all'esterno le espressioni verranno intese in senso sfavorevole e offensivo nei confronti del datore di lavoro;
b) l'utilizzo di toni volutamente ed eccessivamente scandalizzati e sdegnati, ad esempio mediante il ricorso a continue esclamazioni con cui si riferiscono notizie "neutre" allo scopo di indurre gli ascoltatori o lettori più superficiali a lasciarsi suggestionare dal tono usato;
c) il ricorso agli accostamenti suggestionanti di fatti che si riferiscono al datore di lavoro con altri fatti, in qualche modo negativi per la sua reputazione, riguardanti altri soggetti estranei al rapporto;
d) il ricorso a vere e proprie insinuazioni, che ricorrono quando, pur senza esporre fatti o esprimere apertamente giudizi, si articola il discorso in modo tale che lo stesso venga interpretato a tutto svantaggio della reputazione del datore di lavoro.
Applicando detti principi ad un caso emblematico, la Corte di Cassazione ha, dunque, ravvisato la violazione del limite della continenza formale nella condotta del dipendente pubblico che aveva affisso alla porta del suo ufficio, in luogo visibile agli altri dipendenti e alla generalità degli utenti, copia di un articolo di giornale riportante un'intervista da lui rilasciata, nella quale, nel denunziare di essere stato progressivamente rimosso dalle sue funzioni nel corso del rapporto di lavoro, accusava la dirigenza di sperperare in tal modo i soldi dei contribuenti, retribuendolo pur se costretto a non lavorare e riferiva altresì che il direttore dell'azienda gli avrebbe, invano, "consigliato" di acquistare determinati beni (computer) da una ditta specifica. Nella fattispecie, il difetto di continenza formale è stato ravvisato dalla Corte di legittimità principalmente nella mancanza di leale chiarezza del lavoratore nell'esposizione dei fatti, resa palese, per un verso, dalla strumentale e voluta enfatizzazione della sua vicenda lavorativa personale, presentata nell'intervista addirittura come un caso emblematico di inefficienza amministrativa e accompagnata dall'accusa, di per sé offensiva, di sperperare denaro pubblico. Per altro verso, e soprattutto, dalla sapiente allusione a un tentativo di corruzione da parte del direttore dell'azienda, episodio non esplicitamente riferito nell'intervista dal lavoratore, ma lasciato filtrare attraverso l'uso di un termine ("consigliare") idoneo a ingenerare all'esterno la convinzione dell'illiceità penale del comportamento dell'azienda e a screditarne significativamente l'immagine. Né valeva a escludere la responsabilità del lavoratore il fatto che dette espressioni non fossero state emanazione del suo pensiero, bensì una formulazione del giornalista, giacché il fatto stesso dell'affissione dell'articolo dietro la porta dell'ufficio, ne comportava una loro approvazione (e una condivisione di tutto l'articolo) da parte del dipendente.
Va da sé che l'offesa diretta ad un proprio superiore, nel caso di specie al Direttore Generale, dinanzi a colleghi e ad ospiti esterni, quando espressa attraverso il turpiloquio, non tollera l'invocazione del diritto di critica, i cui confini devono dirsi indebitamente superati per violazione del principio di continenza formale, ben potendo tale comportamento giustificare finanche il licenziamento (Cass. 18 luglio 2018, n. 19092).

L'utilità sociale alla conoscenza della notizia divulgata: interessi individuali, generali e collettivi
Ai fini del corretto contemperamento tra l'esercizio della libertà di manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro e il dovere del lavoratore di collaborare lealmente con il datore di lavoro e di astenersi da comportamenti idonei a pregiudicare gli interessi della propria azienda, occorre, altresì, analizzare la rilevanza sostanziale della materia trattata e degli interessi che si intendono proteggere. In particolare, per un corretto bilanciamento tra il diritto alla reputazione o all'onore del soggetto "criticato" e la contrapposta libertà di opinione di colui che critica, deve essere considerato anche l'eventuale "terzo interesse", rappresentato dall'interesse finale cui risulta funzionalmente rivolto l'esercizio della critica, con particolare riferimento alla natura (individuale, ovvero pubblico-generale, ovvero ancora collettivo-sindacale) dello stesso (Cfr. M. Aimo, «Privacy, libertà di espressione e rapporto di lavoro», Napoli, 2003, pag. 232; v. in questo senso S. P. Emiliani, «La libertà del lavoratore di manifestare il proprio pensiero e di rispettare l'altrui onore e reputazione», ADL , 2007, pag. 428-429).
In alcuni casi, in particolare, la giurisprudenza ha ritenuto ammissibile la critica del lavoratore qualora finalizzata a salvaguardare interessi collettivi caratterizzati da una "superiore dignità costituzionale" rispetto all'interesse individuale dell'imprenditore. La ratio sottesa a tale orientamento parte dal presupposto per cui sembra corretto operare una ulteriore distinzione tra diritti afferenti a beni individuali, tra i quali può individuarsi una esigenza di equiparazione (così è per quello di libertà di manifestazione del pensiero e l'altro posto a salvaguardia della personalità nei suoi vari attributi) e diritti finalizzati alla tutela di interessi collettivi, cui la carta fondamentale conferisce valore preminente, tanto da consentire a volte il sacrificio dei primi per un loro più completo soddisfacimento (per es. in tema di limitazioni della proprietà privata). È indubbio che il diritto alla salute rientri nella seconda categoria sopra enunciata, sicché, quando anche si ritenesse che il diritto di critica sia stato esercitato in modo da ledere obiettivamente l'onore o la reputazione di altro soggetto, ben può assumersene la liceità per la concreta individuazione di una causa di giustificazione, che operi come discriminante in riferimento al valore che l'ordinamento attribuisce all'interesse concreto in funzione del quale la critica è svolta e che nella specie si è ravvisato nel diritto alla salute. Nel caso de quo, infatti, la divulgazione di notizie da parte dei dipendenti afferenti disfunzioni dell'istituito sanitario nell'interesse della pubblica salute, è stata ritenuta escludente della necessità di qualsivoglia indagine sull'elemento soggettivo che possa aver indotto alla divulgazione stessa.
Tale approccio cognitivo, tuttavia, non è da ritenere pacifico ed incontrastata, considerando come, ad esempio, i Giudici capitolini (Trib. Roma, n. 5928/2013) hanno ritenuto legittimo il licenziamento del lavoratore che aveva denunciato pericolose difformità organizzative degli impianti nucleari presso i quali egli prestava la propria attività, ipotizzando ulteriori rischi nelle attività di bonifica e smantellamento delle sacche di uranio, nonostante la ratio della divulgazione di informazioni e, dunque, della denuncia fosse collegata a interessi collettivi, quali quello dell'ambiente e della salute (di cui rispettivamente agli artt. 32 e 2 Cost.).

Conseguenze del superamento dei limiti del diritto di critica
Così identificati i limiti oltre i quali non può essere esercitato il diritto di critica da parte dei lavoratori, occorre ora verificare quali ripercussioni possa avere sul rapporto di lavoro il loro superamento.
Al riguardo la giurisprudenza è da tempo pervenuta alla conclusione che il superamento anche di uno soltanto dei suddetti limiti può produrre conseguenze irrimediabili dal punto di vista disciplinare, implicando una grave violazione dell'obbligo di fedeltà del dipendente sancito dall'art. 2105 c.c. e pregiudicando irreparabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro.
Tale approdo rappresenta espressione di una concezione ampia dell'obbligo di fedeltà del lavoratore, che si sostanzia nel dovere di astenersi non soltanto dai comportamenti vietati dall'art. 2105 c.c., ma anche da tutti quei comportamenti che, per la loro natura e le loro conseguenze, risultino in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa stessa o, ancora, siano idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso.
Seguendo questa impostazione, si è dunque pervenuti alla conclusione che l'esercizio del diritto di critica oltre i limiti sopra identificati, costituisce grave violazione dell'obbligo di fedeltà, tale da ledere il vincolo fiduciario, legittimando, conseguentemente e a seconda dei casi, il licenziamento del lavoratore per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. (che dovrà comunque essere preceduto dal procedimento di contestazione disciplinare previsto dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori, nell'ambito del quale il lavoratore potrà controdedurre e presentare le eventuali giustificazioni agli addebiti mossigli dal datore di lavoro).
Al riguardo, la giurisprudenza ha ritenuto, ad esempio, giustificato il licenziamento nel caso di alcuni lavoratori che risultavano aver sottoscritto un volantino contenente una serie di accuse all'azienda, rivolte facendo ricorso a espressioni esorbitanti il limite della continenza formale; ovvero ha confermato, piuttosto, la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dirigente, reo di aver denigrato a tal punto l'azienda e alcune figure chiave della stessa, da indurre un lavoratore neo assunto a rassegnare subito le proprie dimissioni.
Oltre a provocare l'avvio del procedimento disciplinare, l'esercizio abusivo del diritto di critica potrebbe, altresì, indurre il datore di lavoro a promuovere nei confronti del dipendente un'azione per il risarcimento dei danni subiti. In questo caso, tuttavia, per poter ottenere una pronuncia di risarcimento danni, il datore di lavoro dovrà fornire la prova del nesso di causalità tra il danno subito e le dichiarazioni, scritte o verbali, del dipendente, posto che l'affermazione non può ritenersi determinante ex sè per la concretizzazione del danno, ben potendo rappresentare la semplice occasione dell'evento lesivo.

Considerazioni conclusive
Lo stratificato intervento a matrice dottrinale e giurisprudenziale, dunque, ha ricondotto, negli anni, ad unità la fattispecie del diritto di critica del lavoratore, subordinandone l'esercizio al rispetto di specifici limiti, sia formali che sostanziali, con individuazione di criteri di valutazione generale applicabili al singolo caso concreto.
La tripartizione condizionale del rispetto del limite esterno del diritto di critica, del limite della continenza sostanziale e del limite della continenza formale, infatti, hanno ricondotto l'esercizio di tale diritto ad una disciplina sostanziale, dai confini mobili.
Ne deriva, invero, come, salvo i casi più estremi, tanto nell'ipotesi del palese abuso del diritto di critica da parte del lavoratore, quanto nella fattispecie virtuosa di evidente perseguimento, da parte del dipendente, di interessi meritevoli di tutela (quali ad esempio quello alla salute o alla sicurezza sul lavoro), la valutazione di sintesi e bilanciamento dei contrapposti diritti ed interessi in gioco non potrà comunque prescindere da una accurata analisi del caso concreto, così da verificare l'eventuale violazione e superamento dei limiti del diritto di critica garantito dall'ordinamento, con derivata rilevanza ai fini disciplinari e risarcitori. Come evidenziato, infatti, il mancato rispetto anche di uno solo dei suddetti limiti può comportare la sanzionabilità del comportamento del lavoratore per violazione dell'obbligo di fedeltà sancito dall'art. 2105 c.c., determinando la contestazione e la sanzione disciplinare, che nei casi più gravi può coincidere finanche con il licenziamento per giusta causa, oltre che il risarcimento del danno, nei casi di diretta derivazione eziologica.

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Tribunale

a cura di Marco Maniscalco * e Andrea Biondi ** * Avvocato del Foro di Milano, Partner Studio Bonelli Erede Pappalardo.

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