Responsabilità

Alitalia, il Mef non deve risarcire gli investitori per le perdite subite

Lo ha stabilito la Corte di cassazione con una articolata sentenza dichiarando inammissibile il ricorso di due azionisti

di Francesco Machina Grifeo

Il Mef non è responsabile di una campagna di disinformazione verso i risparmiatori volta a favorire gli investimenti in Alitalia; né con il suo voto determinante per l'approvazione del bilancio 2008 (in un momento di profonda crisi dell'azienda) ha realizzato quell'atto di "direzione e coordinamento" che (ai sensi dell'articolo 2497 del c.c.) rende società ed enti responsabili nei confronti dei soci per il pregiudizio arrecato. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con una articolata sentenza (n. 15276 depositata oggi) dichiarando inammissibile il ricorso di due investitori. In primo grado invece il Tribunale di Lecce aveva riconosciuto la responsabilità del Ministero. Verdetto poi ribaltato dalla Corte di Appello che aveva escluso sia la responsabilità extracontrattuale (in materia informativa) che quella di azionista di maggioranza, richiamando il Dl 78/2009 che aveva espressamente limitato la responsabilità dello Stato in questo ambito.

La Terza sezione civile fa un passo avanti, aggiungendo che nel ricorso dei due investitori manca l'indicazione specifica dei fatti che supportano l'asserita responsabilità del MEF e dunque il diritto al risarcimento del danno. E cioè manca l'elemento costitutivo della "disformità delle scelte di indirizzo e coordinamento adottate dall'ente di direzione, rispetto a quelle che, nelle situazioni concrete date, avrebbero potuto e dovuto essere adottate secondo i sani criteri della gestione economica".

I ricorrenti, prosegue la Corte, si sono limitati ad affermare che il Mef "aveva sostenuto" la linea del programma gestionale degli amministratori di Alitalia, approvando il bilancio 2008 "in assenza di fattibilità di un piano industriale", senza, tuttavia, indicare in concreto la ragione per la quale tale condotta, ove anche ex se riconducibile alla attività di "direzione e coordinamento", sarebbe venuta, in concreto, ad integrare una violazione del dovere di diligenza, difettando in particolare la indicazione di quegli elementi circostanziali in base ai quali emergerebbe la violazione dei principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria. Tantomeno è sufficiente il richiamo alle "relazioni commissariali", il Commissario all'epoca era il prof. Augusto Fantozzi per provare che i piani di salvataggio erano "assolutamente e palesemente inattuabili".

Attraverso un "assunto assiomatico" si prospetta dunque che la "successiva definitiva crisi economico-finanziaria della società, presupporrebbe necessariamente la esistenza di una "attività di direzione e coordinamento" esercitata "in modo abusivo" dal socio pubblico di maggioranza o comunque dal socio di influenza dominante, "non essendo al contrario stata fornita alcuna indicazione od elemento indiziario volto a fondare la inosservanza dei corretti criteri gestionali, da parte del socio di maggioranza pubblico, nel tentativo di mantenere la società partecipata attiva sul mercato, attraverso iniezioni di liquidità destinate a ripianare le perdite di gestione, risultando".

Inoltre vagliando il complesso ordito normativo che ha accompagnato i vari "salvataggi" di Alitalia, la Cassazione ricorda che la Corte costituzionale, sentenza n. 270/2010, ha ritenuto infondata la questione di costituzionalità del Dl 134/2008, convertito in legge 166/2008, che ha disposto una deroga ad personam per la compagnia di bandiera, quale grande impresa in crisi dei servizi pubblici essenziali, per garantire "la continuità del trasporto aereo su tutto il territorio nazionale" anche su tratte economicamente non convenienti, al fine di "evitare la dissoluzione di una impresa di rilevanti dimensioni".

In tal modo, prosegue la decisione, la norma aveva "condizionato l'operato degli amministratori e sindaci di Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a., nonché di ALITALIA Servizi s.p.a. e delle società da queste controllate". Ma aveva altresì previsto che "la responsabilità per i relativi fatti (cioè per i "comportamenti, atti e provvedimenti che siano stati posti in essere dal 18 luglio 2007 fino alla data di entrata in vigore del decreto commessi da amministratori e dirigenti) è posta a carico esclusivamente delle predette società". Disponendo contestualmente delle misure di tutela a favore dei risparmiatori che avevano investito in titoli delle società che - per effetto delle scelte strategiche condizionate dal vincolo dell'interesse pubblico generale - "avrebbero potuto subire una diminuzione del valore delle partecipazioni nel capitale sociale", norma poi modificata con la possibilità di cambiare i propri titoli con titoli di Stato.

Non si vuole dire, conclude la Cassazione, che l'intervento del socio pubblico di maggioranza volto a tutelare l'interesse pubblico esonera in ogni caso da responsabilità civile l'Amministrazione statale che, tramite propri rappresentanti, esercita poteri di direzione coordinamento attraverso il voto nelle assemblee della società controllate. Ma che va limitata al caso in cui l'esercizio del voto si sia risolto in un "depauperamento della integrità del patrimonio della società eterodiretta". Dovendosi tuttavia a tal fine verificare: "a) se ed in che modo il perseguimento dell'interesse pubblico generale abbia determinato uno scostamento dalle scelte strategiche e gestionali che apparivano corrette alla stregua dei criteri economico-aziendali; b) se l'eventuale scostamento dai predetti criteri abbia o meno determinato diseconomie tali da incidere sul patrimonio societario e, di riflesso, sul valore o sulla redditività delle partecipazioni intestate agli altri soci privati, occorrendo, a proposito, tenere conto di tutti gli eventuali interventi - anche esterni - volti a prevedere e determinare ‘misure compensative' idonee a ridimensionare od annullare gli effetti pregiudizievoli della scelta operativa imposta dal socio pubblico di maggioranza".

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