Penale

BPV: alla Consulta la maxi confisca per equivalente da 1mld ai top manager

La Cassazione, sentenza 8612 depositata oggi, torna sulla questione accogliendo il ricorso del Procuratore generale di Venezia

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di Francesco Machina Grifeo

La maxi confisca per equivalente per quasi 1 miliardo di euro disposta nei confronti di Giovanni Zonin (presidente del Cda) e degli altri top manager della Banca Popolare di Vicenza (in stato di insolvenza nel 2018) finisce davanti alla Corte costituzionale perché manifestamente “sproporzionata”. A disporla era stato il Tribunale di Vicenza e sebbene la Corte di appello (accogliendo uno dei motivi della difesa proprio di Zonin) l’abbia poi revocata, la Cassazione, sentenza 8612 depositata oggi, torna sulla questione accogliendo il ricorso del Procuratore generale di Venezia. In sintesi (ma la sentenza è lunga e complessa) le ragioni alla base della revoca non convincono la Quinta Sezione penale, in quanto non autorizzate dalla lettera della norma. Tuttavia – osserva la Corte - anche applicare la misura così come prevista dal codice civile non avrebbe senso in quanto condurrebbe ad un esito sproporzionato rispetto al reato commesso, anche considerata l’assenza di profitto personale. In sostanza (come già previsto dalla Consulta, n. 122/2019) nei casi di reati concernenti gli abusi di mercato, la confisca deve essere limitata al solo profitto, “in quanto tale ablazione garantisce appieno la funzione ripristinatoria”. E non invece come nel caso specifico estesa ai mezzi impiegati per commettere il reato (aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza miranti all’artificiosa rappresentazione dell’entità del patrimonio di vigilanza, individuato in 963mln di euro). Da qui il rinvio alla Consulta del co. 2 dell’articolo 2641 del c.c..

In altri termini, prosegue la decisione, “si intende restringere l’intervento ablatorio connotato da componenti punitivo sanzionatorie, poiché esso, se fosse esteso al prodotto ed ai mezzi utilizzati per commettere il reato, potrebbe assumere carattere sproporzionato. Al contrario, limitando la confisca al profitto del reato, si realizza una proporzione sostanzialmente automatica tra il vantaggio scaturente dalla commissione dell’illecito e l’ammontare della confisca, anche per equivalente, senza alcun riverbero sull’entità del trattamento sanzionatorio”.

“Tali principi - scrive la Corte - sembrano dover essere applicati anche all’art. 2641 cod. civ., norma che concerne la confisca nel caso di reato di aggiotaggio, come pure nel caso del delitto di ostacolo alla vigilanza”. A rendere ancora più manifesta la sproporzione, del resto, è il raffronto con la pena detentiva che scaturirebbe dal ragguaglio dell’importo oggetto della confisca, alla luce dei criteri dell’art. 135 cod. pen.: appena 2.737.500 corrispondono a trent’anni di reclusione. Ciò dimostra che, anche indipendentemente dal cumulo con la pur severa pena detentiva applicabile (da due a otto anni di reclusione), la risposta sanzionatoria mostra la completa assenza di qualunque razionale correlazione con il fatto.

E ciò senza dire che “l’inesigibilità di importi di tale fatta comporta solo il risultato di realizzare, in linea generale, un permanente vincolo obbligatorio sul patrimonio dei soggetti condannati, senza comportare alcun reale vantaggio per il creditore”. “In altri termini, è la struttura della norma a collocare il rimedio al di fuori di qualunque parametro di razionale adeguatezza”. In realtà, continua il ragionamento, le peculiarità strutturali della confisca, prima ancora che un problema di proporzionalità rispetto alla complessiva risposta sanzionatoria, pongono un problema di proporzionalità intrinseca alla misura, “ossia di razionale costruzione dei suoi presupposti al fine di individuare una risposta adeguata al fatto considerato nella complessità dei suoi elementi costitutivi, altrimenti finendo per perdere ogni legame con la persona del colpevole”.

E allora, prosegue la decisione, l’unica strada praticabile è quella della rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità dell’art. 2641, secondo comma, cod. civ., in relazione al primo comma dello stesso articolo, sotto il profilo del contrasto di tale norma con gli artt. 3, 27, commi primo e terzo, 42, 117 della Costituzione, quest’ultimo in riferimento all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, nonché agli artt. 11 e 117 della Costituzione, con riferimento agli artt. 17 e 49 CDFUE. La semplice disapplicazione da parte del giudice per incompatibilità con la normativa europea invece esporrebbe invece a “incertezze e disparità di trattamento” a seconda delle decisioni delle diverse autorità giudiziarie.

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